venerdì 8 marzo 2013

Il sogno di Chávez

Il sogno di Chávez
di Gianni Minà -
Qualunque sia la valutazione politica che la storia darà a Hugo Chávez, presidente del Venezuela appena scomparso, non c’è dubbio, se si è in buona fede, che il suo rapido passaggio in questo mondo non sia stato un evento banale. Per questo credo stia suscitando una commozione collettiva in tutta l’America Latina, anche in quelle nazioni meno abituate ad approvare le strategie di cambiamento di questo seguace di Bolivar che sognava un continente affratellato.
Mentre scrivo sono già arrivati a Caracas i presidenti di Argentina, Bolivia e Uruguay e pare stia per arrivare perfino Juan Manuel Santos (il presidente della Colombia succeduto all’inquietante Uribe) che, nel rispetto dell’utopia proprio della «Patria Grande», aveva deciso di imbastire un nuovo rapporto con Chávez. Non c’è dubbio che questa realtà quasi rivoluzionaria abbia potuto mettersi in marcia perché in pochi anni si è evoluto il ruolo del Venezuela e si è affermata, nel continente, una politica di hermanidad spinta dal colonnello dal basco rosso, certo di poter affermare i suoi sogni di unità latinoamericana.
Paradossalmente, però, è questo il sentimento che proprio non riescono a capire molti media europei. Non solo perché nazioni latinoamericane come l’Argentina, la Bolivia e l’Ecuador hanno deciso di recuperare, nazionalizzandole, alcune delle proprie ricchezze saccheggiate nel tempo dal “democratico” mondo occidentale; ma perché, per la prima volta nei secoli più recenti è con i paesi dell’America Latina che bisogna fare i conti e, a sorpresa, non con gli Stati Uniti o con le nazioni un tempo colonizzatrici.
Questa situazione però, secondo alcuni analisti europei e del nord del mondo, risulta scandalosa e inaccettabile. Perché, oltretutto, mette in crisi le certezze delle agenzie di rating, della finanza speculativa, di tutti coloro insomma convinti che il mondo è sempre andato così e non può cambiare.
Eppure basterebbe considerare che cosa, in questi anni, ha fatto il Venezuela, oltre ad affrontare e vincere salvo in un caso, 15 consultazioni elettorali o referendum. Se non è democrazia questa, non sappiamo che altro valore dargli.
Quando Chávez ha ereditato il governo del Paese dal presunto socialista Carlos Andrés Péres, c’erano cinque milioni di esseri umani che vivevano nelle villas miserias dove i bambini non andavano a scuola perché i padri non erano nemmeno registrati all’anagrafe. Insomma, cinque milioni di “inesistenti”, in una nazione di 24 milioni di abitanti seduta su uno dei giacimenti petroliferi più importanti al mondo. Era il “Venezuela Saudita”, dove i proventi del petrolio restavano nelle tasche di pochi e di un pugno di multinazionali e dove Carlos Andrés Péres, un giorno, dette perfino l’ordine di sparare su un corteo di cittadini esausti proprio per le politiche del Fondo monetario, massacrando più di mille persone. Ora, nel Venezuela bolivariano del «caudillo populista», gli indigenti sono meno della metà di allora, 49,21% invece del 70%.
Ma all’opposizione non è bastato: «Con quale criterio Chávez continuava a usare le entrate del petrolio in opere sociali invece di investire sul petrolio stesso?».
Non si tratta di rispettare una logica economica, ma di far prevalere un diritto morale. Chi ha stabilito, per esempio, che l’economia neoliberale, anche quando procura disastri come in questa epoca, è la via maestra da continuare a seguire? E non è un problema di ideologia, ma di etica. Lo affermano anche personalità della cultura nordamericana come Sean Penn e Oliver Stone. Jimmy Carter, l’ex presidente degli Stati Uniti, ha inviato per esempio questo messaggio al popolo venezuelano: «(…) il presidente Chávez sarà ricordato per la sua audace ricerca di indipendenza per i paesi latinoamericani, per le sue formidabili capacità comunicative e per il rapporto che stabiliva con chi lo seguiva, tanto nel suo Paese, come all’estero. A questi trasmetteva loro speranza e fiducia nelle proprie capacità. Nei 14 anni del suo governo, Chávez si è unito con altri leader dell’America Latina e dei Caraibi per creare nuove fonti di integrazione e ha ridotto della metà la povertà nel suo Paese».
Così, quando leggo queste dichiarazioni di stima del più etico fra gli ultimi Presidenti degli Stati Uniti, mi domando quale sia il concetto di democrazia dei nostri media. Ho visto che non si sono nemmeno dati la pena, dopo aver sostenuto che non c’è libertà di stampa in Venezuela, di informare – come hanno fatto Ignacio Ramonet di Le Monde diplomatique e il politico francese Jean-Luc Mélenchon – che dei 111 canali televisivi esistenti in Venezuela, solo 13 sono di proprietà dello Stato e con audience di solo il 5,4%. Purtroppo, i nostri intrepidi cronisti si rifanno, per raccontare l’America Latina, quasi esclusivamente al mitico quotidiano spagnolo El Pais, che, proprio l’altra settimana, con assoluto disprezzo delle regole del nostro mestiere, aveva pubblicato in prima pagina (evidentemente augurandoselo) una foto di Chávez intubato e morente risultata però falsa. Il prestigioso quotidiano spagnolo aveva dovuto chiedere scusa pubblicamente e ritirare all’alba tutte le copie già stampate e distribuite.
La verità è che in poco più di dieci anni, l’America Latina è stata capace di dotarsi, per l’intuizione di uomini politici come Lula o lo stesso Chávez, di strumenti capaci di farla competere con realtà come la stessa Comunità Europea. Basti pensare al Mercosur e al Banco del Sur (lanciato nel 2007 con una capitalizzazione di 7 bilioni di dollari da 7 membri: Venezuela, Argentina, Bolivia, Brasile, Ecuador, Uruguay e Paraguay) una scommessa che ha reso più autonoma e indipendente gran parte dell’America Latina. Ma la prova tangibile dei meriti di Chávez e della sua politica, pur fra errori e qualche esagerazione, è forse TeleSur, la televisione satellitare del continente che, l’altra notte, in una diretta no-stop, ha mostrato un dolore collettivo non solo di un Paese, il Venezuela, ma di quella che Ernesto Che Guevara definiva «nuestra Grande America».
«Io non sono io – ha detto una volta Hugo Chávez parlando dei suoi sogni – ma un popolo unito».
Il Manifesto – 07.03.13

giovedì 7 marzo 2013

Due parole in libertà ai compagni e alle compagn


Per non ripiegare nel conformismo

Quel formidabile pedagogista che è stato Gianni Rodari, autore di indimenticabili favole per bambini e di saggi capaci di illuminare tutto l'universo infantile, finse - per parafrasare la celebre chiosa di Jean Jacques Rousseau sul Principe di Machiavelli - di parlare (soltanto) ai bimbi per dare in realtà grandi lezioni agli adulti. E, in particolare, a coloro, fra gli adulti, che si battono, o dichiarano di battersi, per cambiare il mondo.
Rodari, nel suo Grammatica della fantasia (scritto nel lontano 1973, per Einaudi) descrive le qualità intellettuali e morali che fanno di un individuo uno spirito libero, i tratti inconfondibili - aggiungerei io - del rivoluzionario, vale a dire la capacità di non rendersi prigioniero della realtà data, di evitare che essa agisca come una camicia di forza ed eserciti una funzione disciplinare sui nostri pensieri; la capacità, insomma, di sventare il rischio sempre in agguato del conformismo, dell'acquiescenza acritica ai luoghi comuni.
"Creatività - ricordava Rodari - è sinonimo di 'pensiero divergente', cioè capace di rompere continuamente gli schemi dell'esperienza. E' 'creativa' una mente sempre al lavoro, sempre a far domande, a scoprire problemi dove gli altri trovano risposte soddisfacenti, a suo agio nelle situazioni fluide, nelle quali gli altri fiutano solo pericoli, capace di giudizi autonomi e indipendenti, che rifiuta il codificato, che rimanipola oggetti e concetti senza lasciarsi inibire dai conformismi".
Ogni comunista degno di questo nome dovrebbe saper coltivare queste virtù con scrupolo certosino. Soprattutto in questi tempi grami, in cui pare di brancolare nel buio e dove non pochi - inclini alle mode o succubi di fragili convinzioni - sono tentati di saltare sul carro dei vincitori o, tutt'al più, di cercare approdi politici più rassicuranti.
Un adagio molto popolare negli States recita che "non c'è cosa più di successo del successo". Ne vediamo una pratica applicazione anche qui da noi, quando un importante esito elettorale - sospinto da potenti media - produce un effetto-contagio a vantaggio delle forze che quel risultato lusinghiero hanno conseguito. Simmetricamente, nella testa degli sconfitti subentra una cupa demoralizzazione, il sospetto implacabile di essere in errore. Ognuno diventa portatore 'insano' di depressione. E scatta, come una molla, la ricerca di un luogo più tranquillo che scacci, a buon mercato, la paura, insopportabile, dell'isolamento. Del resto, è sempre più facile stare in maggioranza che in minoranza. Più difficile è mantenere fermo il timone, non per chiudersi in autistiche (e patetiche) certezze ma, al contrario, per mettersi in discussione, senza ipocrisie, per imparare dalle proprie sconfitte, senza abiure, repentine conversioni, o "fughe nell'opposto", come le chiamava Cesare Musatti per spiegare la risposta fallace con cui si prova ad esorcizzare uno scacco. E per continuare nell'opera che in ogni tempo è toccata a tutti gli eretici, quella di nuotare controcorrente, per smontare ideologismi spacciati per inossidabili verità.
E' però l'operosità intelligente, che deve venire in soccorso. Forse, negli sconfitti, e noi lo siamo certamente stati, è proprio questo che sin qui è mancato, ma di cui si aveva (e forse ancora si ha) scarsa o relativa consapevolezza. E' il limite di tutti i fideismi. "Si crede -  scriveva Gramsci in una splendida pagina dei Quaderni - nella volontà di credere, come condizione della vittoria". Ma questo buttare il cuore oltre l'ostacolo rivela "una tendenza di natura oppiacea: è infatti proprio dei deboli abbandonarsi alla fantasticheria, sognare ad occhi aperti che i propri desideri sono la realtà (...), vedere le cose oleograficamente, nei momenti diculminanti di alta epicità". Nella realtà - continua Gramsci - da dovunque si cominci ad operare "le difficoltà appaiono subito gravi, perché non si era mai pensato concretamente ad esse; e siccome bisogna sempre cominciare da piccole cose (per lo più le grandi cose sono un insieme di piccole cose) la 'piccola cosa' viene a sdegno", Per cui "è meglio continuare a sognare e rimandare l'azione al momento della 'grande cosa' ".
Dovremo molto attentamente riflettere su ciò che siamo davvero, come singoli e come partito, se vogliamo provare a costruire una strategia convincente ed una macchina capace di affermarla nella realtà.
Dino Greco
in data:07/03/2013

mercoledì 6 marzo 2013

HASTA SIEMPRE COMANDANTE!!!

Hugo Chavez non ce l’ha fatta. Dopo una lunga convalescenza, al riparo dei riflettori e della morbosità dei media, il comandante ha perso la madre di tutte le battaglie. Quella contro il tumore implacabile che lo aveva colpito ormai da tempo e che lo aveva costretto a subire ben quattro operazioni chirurgiche a Cuba, l’ultima lo scorso 11 dicembre.
Con Chavez scompare un protagonista indiscusso della storia latino-americana e mondiale. Un dirigente rivoluzionario atipico, di origini umili, mai digerito da quella oligarchia bianca e razzista che aveva dominato il Paese a “sangue e fuoco” e che si era vista sfilare dalle mani il governo da un “indio”. Chi scrive ha avuto modo di incontrare il Comandante Chavez in diverse occasioni. Mi hanno sempre colpito la sua vitalità vulcanica, la coscienza della storia, la sua curiosità intellettuale, la sua onestà e l’attenzione ai più umili.
Nei suoi 14 anni di mandato presidenziale, l’ex colonnello dei paracadutisti ha gettato le basi per una trasformazione in senso socialista del Venezuela. La sua azione politica e la sua indiscutibile capacità di direzione hanno cambiato per sempre un Paese che, fino al suo arrivo sulla scena politica, era il simbolo dell’alternanza tra due partiti sostanzialmente uguali: da un lato Copei cha fa riferimento all’Internazionale democristiana. Dall’altro Accion Democratica membro dell’Internazionale Socialista. E in decenni di governi e di patto tra loro, la gran maggioranza del popolo venezuelano è vissuta nella miseria, nonostante le enormi ricchezze petrolifere del “Venezuela Saudita” a stelle e a strisce.
Dopo aver scontato la galera per aver cercato di ribellarsi militarmente ai governi della miseria, nel 1998 Chavez ottiene la sua prima vittoria elettorale. Da quel giorno è una valanga inarrestabile, prima con la realizzazione dell’Assemblea Costituente e poi con una vittoria elettorale dopo l’altra (ne totalizza 14 su 15), con buona pace dei suoi detrattori che lo hanno accusato di essere un dittatore, pagliaccio, populista, demagogo. Quella destra interna ed internazionale, in prima fila nel tentato golpe del 2002 (e nella successiva serrata golpista), in buona compagnia dell’Internazionale Socialista che lo ha sempre osteggiato, più o meno apertamente. Né l’una né l’altra hanno mai capito la “connessione sentimentale” che legava Chavez al suo popolo.
Dalla democrazia rappresentativa a quella protagonica
Con Chavez il popolo venezuelano ha ritrovato la dignità e l’orgoglio. Per la prima volta protagonista, ha potuto cominciare a partecipare, a decidere sul proprio destino, a sperare in un diverso futuro attraverso il proprio riscatto. Il governo Chavez ha impedito sul filo di lana la privatizzazione di PdVSA, l’impresa statale del petrolio che da sempre fa gola alle multinazionali straniere, in primis a quelle statunitensi. Grazie alle risorse petrolifere messe a disposizione del Paese, in questi anni di “Rivoluzione Bolivariana” il Venezuela è cambiato profondamente. Politiche sociali nell’ambito della casa, della salute, dell’educazione, della cultura, dell’accesso al credito, del riconoscimento dei popoli originari, delle pensioni, dei salari, della battaglia a favore dei diritti delle donne, dell’accesso alla terra ed ai suoi frutti.
Oggi il Venezuela conta su un partito di massa, il Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), su centinaia di organizzazioni popolari e sociali, su una matrice produttiva che iniza a diversificarsi ed emanciparsi dal mono-coltivo del petrolio, ponendosi l’obiettivo della sovranità alimentare.
Anche sul fronte internazionale innumerevoli sono state le sue iniziative, con la bussola prioritaria dedicata al continente latinoamericano, ai Caraibi ed alla sua necessaria integrazione politica ed economica. Con lo spirito della “Patria grande” di Simon Bolivar, Chavez è stato in prima fila nella battaglia per liberarsi dal giogo statunitense nel loro “cortile di casa”. La battaglia vittoriosa contro l’Alca (l’Area di Libero Commercio inventata dall’Amministrazione Usa), la creazione dell’Alba (Alleanza Bolivariana per i popoli della Nostra America), e poi Unasur e da ultimo la Celac sono tutte nuove istituzioni che portano il marchio inconfondibile dell’azione del governo Chavez.  E poi l’iniziativa per la creazione del Banco del Sur, la battaglia dentro la Opec (l’Organizzazione dei Paesi produttori di Petrolio) a favore di una più equa ripartizione dei prezzi del petrolio e contro l’ingerenza statunitense, l’opposizione alla guerra in Iraq, Afghanistan, all’occupazione israeliana dei territori palestinesi, l’appoggio alla soluzione politica del lungo e sanguinoso conflitto armato colombiano.
Attraverso i suoi potenti mezzi di comunicazione, oggi la destra interna ed internazionale scommette sul caos e sulla divisione interna tra le varie anime del “chavismo”. Ma guai a confondere l’inevitabile tristezza per la scomparsa del Presidente con la debolezza del processo di trasformazione e dei suoi protagonisti, in primo luogo del popolo venezuelano e delle sue organizzazioni. La Rivoluzione Bolivariana non è disarmata. Oggi le Forze Armate sono molto più addestrate e compatte nella difesa dell’interesse nazionale e non di quelli stranieri, più colte e più preparate ideologicamente per affrontare le nuove sfide del futuro.
Sul piano politico, a partire da una sua probabile vittoria alle prossime elezioni, il candidato alla Presidenza proposto da Chavez ha una gran responsabilità: Nicolàs Maduro dovrà farsi carico di dirigere il Paese in maniera unitaria e pragmatica. Dovrà tenere conto delle diverse espressioni e tendenze presenti, mentre è imprescindibile continuare a formare i quadri per una direzione collettiva nel futuro. La costruzione del socialismo venezuelano è la sfida che Maduro ed il governo bolivariano hanno davanti a sé.
Oggi però le nostre bandiere sono listate a lutto. Che la terra ti sia lieve, comandante!
Marco Consolo

martedì 5 marzo 2013

Vi ricorda qualcosa?

“Chi è il responsabile? Loro! I partiti! Per 13 anni hanno dimostrato cosa sono stati capaci di fare. Abbiamo una nazione economicamente distrutta, gli agricoltori rovinati, la classe media in ginocchio, le finanze agli sgoccioli, milioni di disoccupati… sono loro i responsabili!
Io vengo confuso… oggi sono socialista, domani comunista, poi sindacalista, loro ci confondono, pensano che siamo come loro. Noi non siamo come loro!
Loro sono morti, e vogliamo vederli tutti nella tomba! Io vedo questa sufficienza borghese nel giudicare il nostro movimento… mi hanno proposto un’alleanza. Così ragionano!
Ancora non hanno capito di avere a che fare con un movimento completamente differente da un partito politico… noi resisteremo a qualsiasi pressione che ci venga fatta.
È un movimento che non può essere fermato… non capiscono che questo movimento è tenuto insieme da una forza inarrestabile che non può essere distrutta… noi non siamo un partito, rappresentiamo l’intero popolo, un popolo nuovo…”
(Adolf Hitler, 1932)

lunedì 4 marzo 2013

SIAMO MORTI?

Siamo morti?

Siamo morti?

di Ramon Mantovani -
Lo stato d’animo non è dei migliori. Eppure bisogna cercare di essere lucidi. E di ragionare.
Non partecipo all’orgia dei social network, sui quali si può leggere di tutto, tranne analisi serie e l’individuazione dei veri problemi del paese e della sinistra.
So bene di andare completamente e sempre più controcorrente.
Ma se alle analisi si sostituiscono spiegazioni superficiali e alle proposte gli slogan invece che capirci qualcosa si finisce per non capire più nulla. E invece di cercare la strada giusta si finisce in un labirinto. In questo modo non si sviluppa nessuna discussione utile. Con il battibecco, con gli scontri verbali, con gli insulti e le iperboli di tutti i tipi si distrugge tutto e si partecipa attivamente a fomentare i peggiori istinti che covano nella società.
Detto questo, parliamo delle elezioni. Esaminando i dati della Camera senza voto estero e i 617 seggi attribuiti con il “porcellum”.
I votanti sono calati di 2 milioni 600 mila unità.
Il centrosinistra ha perso 3 milioni e mezzo di voti.
Il centrodestra 7 milioni e duecentomila.
Sono quasi undici milioni di voti in meno ai due schieramenti maggiori.
Il Movimento 5 Stelle ha avuto 8 milioni e 700 mila voti.
Lo schieramento di centro (nel 2008 solo UDC con poco più di 2 milioni di voti) ha avuto 3 milioni e 600 mila voti.
Ho appositamente omesso le percentuali perché, oltre ad essere conosciute, secondo me oscurano l’enormità degli spostamenti di voto che ci sono stati e falsano la percezione del significato politico del voto.
Ora proviamo a guardare i risultati utilizzando un altro punto di vista.
Le forze che hanno sostenuto il governo Monti hanno avuto circa 22 milioni e mezzo di voti. Circa il 63 % sui votanti. Nel parlamento avevano più del 90 % dei seggi.
Ora vediamo i seggi.
Il centrosinistra con il 29,54 % dei voti prende 340 seggi pari al 54 % dei seggi totali. Il premio di maggioranza è del 24,5 %. Quasi un raddoppio dei seggi.
Il centrodestra con il 29,18 % dei voti prende 124 seggi pari al 20 % dei seggi totali. Lo 0,35 % in meno determina una differenza in seggi di 216 unità.
Le forze che hanno sostenuto il governo Monti hanno avuto 454 seggi (senza SEL e Lega Nord) pari al 73 % dei seggi totali, contro il 63 % dei voti.
SEL con il 3,2 % conquista 37 seggi. La Lega Nord con il 4,08 % conquista 18 seggi. Prende più voti di SEL ma metà deputati rispetto a SEL.
L’UDC con l’1,78 % dei voti prende 8 seggi. Il Centro Democratico con il 0,49 % dei voti prende 6 seggi. Fratelli d’Italia con l’1,95 % dei voti prende 9 seggi. Rivoluzione Civile con il 2,25 % dei voti prende zero seggi.
Un deputato del PD vale 29603 voti. Uno di SEL  29444 voti. Uno del PDL 75594 voti. Uno del Movimento 5 Stelle 80455 voti.
Prima di passare alle considerazioni politiche non si può non valutare il tasso di democraticità della legge elettorale.
Si tratta di una legge altamente deformante la volontà popolare, che quindi partorisce un parlamento non rappresentativo.
Credo basti leggere i dati che ho più sopra citato e che non sia necessario argomentare oltre per dimostrare la giustezza del mio giudizio.
Intanto, però, questa legge è in vigore da molto tempo ed è la terza volta che viene applicata.
Il sistema politico è stato trasformato da questa legge, i partiti si sono modellati su questa legge, gli elettori quando pensano a votare e a scegliere lo fanno sulla base dei meccanismi imposti dalla legge, i mass media ne amplificano tutti gli effetti più deleteri. Quella precedente era anche peggio. Non posso ora, per brevità, argomentare e dimostrare il perché. Come è di gran lunga peggiore quella degli enti locali, che è presidenzialista, ultramaggioritaria e inquinata dalle preferenze.
Vorrei ricordare a tanti che in Italia il maggioritario è stato proposto da Segni, appoggiato dal PDS e dalla Lega (allora forza emergente), come soluzione del problema della corruzione e come “riavvicinamento” del sistema politico ai cittadini. Il risultato e sotto gli occhi di tutti. Più corruzione, partiti ultrapersonali (PD e SEL compresi), distanza abissale fra sistema politico e cittadinanza, talk show dieci volte più importanti del parlamento, e potrei continuare.
Ovviamente non tutto quello che le ultime elezioni ci hanno messo sotto gli occhi è dovuto al sistema elettorale. Nei vent’anni di maggioritario tutti i diritti conquistati in decenni di lotte sono stati messi sotto attacco. Il lavoro è stato svalorizzato, il mercato finanziario è diventato il vero sovrano al quale i governi hanno obbedito, una generazione vive ormai ben peggio dei propri genitori, la guerra è diventata uno strumento ordinario della politica internazionale del paese e dell’occidente, l’istruzione e la sanità, oltre che l’acqua e gli altri servizi pubblici, sono stati potentemente privatizzati. Anche qui potrei continuare a lungo.
Ma tutte queste modificazioni della realtà sociale sono state possibili attraverso le relative leggi, che anche quando hanno suscitato proteste, lotte e resistenze, sono state approvate dal parlamento maggioritario senza battere ciglio. Quando qualcuno si è opposto, tentando di dare voce alle lotte, è stato accusato di voler fare il gioco dell’avversario, ricattato, diviso e ridotto all’impotenza. I contenuti sono diventati un accessorio strumentale nella vera contesa che era l’alternanza fra centrodestra e centrosinistra, uniti dal feticcio della governabilità interna alle compatibilità imposte dal mercato.
L’intreccio fra maggioritario e ristrutturazione sociale sulla base dei puri interessi capitalistici e finanziari è potentissimo.
Oggi il sistema sociale e quello politico non reggono più, di fronte alle conseguenze della crisi. Ma la sinistra reale, al contrario di tutti gli altri paesi europei, si è presentata all’appuntamento logorata da venti anni di divisioni e ormai ridotta nei fatti, persino indipendentemente dalla sua stessa volontà, esattamente alle due varianti previste per essa dalla logica del maggioritario: quella interna al bipolarismo condannata a non influire minimamente sulla sostanza del governo, e quella testimoniale espulsa dalle istituzioni.
Senza tenere conto di questo contesto, cui ho accennato finora, non si può capire la portata della sconfitta, e si finisce con lo scambiare gli effetti per le cause o, peggio ancora, per coltivare illusioni circa soluzioni miracolistiche dell’enorme problema con il quale ci si deve confrontare.
Tenendo conto di questo contesto, invece, si può affrontare meglio anche la discussione circa le responsabilità soggettive delle forze politiche ed anche di quelle sociali, a cominciare da quelle dei sindacati e delle organizzazioni della società civile.
Cosa ci dice il risultato elettorale?
Ci dice tre cose:
1) il bipolarismo è morto. Ci sono 4 poli in parlamento. E nonostante il meccanismo maggioritario nessun governo è possibile senza un accordo post elettorale. Sono centrodestra e centrosinistra gli sconfitti e al loro interno le forze minori, come SEL, risultano irrilevanti. Il centro è cresciuto ma non a sufficienza per colmare l’esodo dei voti contrari alle politiche europee e di massacro sociale.
2) un movimento indefinito sul piano ideologico ed ideale, con un programma vago e in molti punti contraddittorio, identificato con un leader predicatore, ha raccolto tutti i voti di protesta.
3) la sinistra reale è irrilevante nel senso pieno del termine. Non è “apparsa” irrilevante. Lo è. Nel senso che per quanto portatrice di contenuti giusti (in molti casi sovrapponibili e in altri parecchio più avanzati e progressisti rispetto al Movimento 5 Stelle), per quanto propositrice di misure serie contro la crisi e i responsabili della crisi, per quanto espressione e vicina a tutte le esperienze di lotta e sociali, nulla ha potuto né contro il “voto utile” né contro il voto di protesta.
Il bipolarismo è morto. Ma invece che prenderne atto sia il PD, sia il PDL, sia il centro, parlano dell’emergenza dell’ingovernabilità. Non so attraverso quali acrobazie, ma prevedo che il governo temporaneo che nascerà, oltre a tenere fede a tutti i diktat della tecnocrazia europea e della finanza, tenterà di “riformare” legge elettorale e istituzioni per garantire la “governabilità”, e cioè il governo dell’esistente con una possibile alternanza.
Il Movimento 5 Stelle conterà esattamente su questo per gonfiarsi e trasformare la protesta in rappresentazione della volontà di cambiamento. Ma cambiamento in quale direzione? Se i tre poli, al netto di finte divisioni e competizioni, sono d’accordo sulla sostanza della politica economica e sono d’accordo sul principio di “governabilità” (non a caso di nuovo mantra dei mass media come nei primi anni 90), hanno una strada obbligata davanti a se. Del resto soprattutto PD e PDL, essendo partiti modellati sul maggioritario e sull’obiettivo di governo dell’esistente, possono cedere sui “privilegi” e i costi della politica, mentre non possono proporre una svolta democratica. Per esempio una legge elettorale proporzionale. Perfino se il PDL e il centro lo facessero troverebbero la fiera opposizione del PD. Mentre sui contenuti avanzati ogni strada gli sarebbe preclusa, sotto la voce privilegi e costi della politica il Movimento 5 Stelle potrebbe anche votare diversi provvedimenti, prendendosi il merito di aver obbligato la “casta” ad ingoiarli. Ma sarebbero in gran parte la realizzazione del sogno estremista liberale. Per fare un solo esempio, eliminazione del finanziamento pubblico e delle strutture di partito (e così, come negli USA, l’elaborazione dei progetti politici e di legge sarebbero appannaggio delle lobbies dei poteri forti). Mentre sulla legge elettorale il Movimento 5 Stelle non ha alcuna posizione. Tranne quella dell’apologia delle preferenze. Non è dato sapere se sia maggioritario o proporzionalista. Se voglia un sistema presidenzialista o meno. Se pensi che la funzione del parlamento debba essere di mero controllo del governo o di effettivo potere legislativo.
Cosa direbbe e soprattutto cosa farebbe se PD e PDL trovassero un accordo su un sistema elettorale maggioritario a doppio turno e su un sistema istituzionale presidenzialista? Stando al programma ufficiale del Movimento 5 Stelle potrebbero votare tranquillamente a favore, ottenendo che i parlamentari non facciano più di due mandati, che non possano svolgere nessuna altra attività e che non abbiano gli attuali residui privilegi.
È una “previsione” puramente astratta. Ma è plausibile stando al programma ed anche alle numerose esternazioni di Grillo, che mentre ha urlato contro la casta e i partiti ha sempre evitato accuratamente di definirsi su una quisquiglia come la legge elettorale e la forma dello stato.
Comunque non è il momento di esercitarsi a fare previsioni e ad indovinare i contorsionismi della politica spettacolo.
Ripeto che solo in Italia la sinistra che condivide il 95 % dei contenuti si presenta divisa alle elezioni. Li condivide sulla crisi e sulle cause e responsabilità della stessa, sulle proposte per uscirne, sul fiscal compact, sul pareggio di bilancio in costituzione, sul lavoro e sulla piattaforma della FIOM, sulla precarietà, sul reddito di cittadinanza, sui beni comuni da sottrarre ai privati, sulla scuola e sanità pubblica, sui diritti civili, sui diritti degli immigrati e così via. Non credo di esagerare. È così.
Gli elettori di sinistra oggi sono divisi fra SEL, Rivoluzione Civile, e Movimento 5 Stelle. In quest’ultimo sono una parte, purtroppo credo non maggioritaria, perché si può essere contro la casta anche da destra, contro l’euro e contemporaneamente contro gli immigrati, e così via. Ma non c’è alcun dubbio che tantissimi elettori di sinistra abbiano votato il Movimento 5 Stelle, con le più svariate motivazioni, spesso contraddittorie fra loro.
In altri paesi europei a sinistra ci sono partiti comunisti, coalizioni comprendenti partiti comunisti e non, partiti di sinistra, movimenti comprendenti più partiti. Insomma, si possono trovare tutte le formule organizzative unitarie e i modelli di partito. Nella crisi crescono considerevolmente fino ad esprimere, proprio dove la crisi è più acuta, la possibile alternativa di governo. Come in Grecia.
Davvero si può considerare seria una discussione, che già vedo profilarsi come al solito, che mette al centro le formule organizzative unitarie? Come se SEL e Rivoluzione Civile fossero divise dalla concezione organizzativa dell’unità e non, invece, dalla logica bipolarista? Davvero è una questione di efficacia del leader in TV? Davvero se cambiassimo tutti i dirigenti e li sostituissimo con giovani risolveremmo i problemi? Davvero se ogni forza pensasse di distinguersi maggiormente dalle altre, con conseguente proliferare di ancor più liste, una di queste potrebbe aspirare a vincere la battaglia egemonica e ad unificare tutto ingrandendo se stessa?
Cosa ci impedisce di fare come Izquierda Unida? O come il Front de Gauche? O come la Linke? O come Syriza? Trovando anche in Italia la formula organizzativa democratica adatta ad unire e non a dividere? Cosa ce lo impedisce?
Purtroppo la risposta è duplice: ci sono due cose che ci hanno fino ad ora diviso irrimediabilmente.
La prima è il maggioritario e le due tendenze figlie del bipolarismo: dentro il centrosinistra a non contare nulla e apparendo agli occhi di buona parte della nostra gente come opportunisti, oppure fuori senza speranza di incidere su nulla e per giunta con il sospetto della nostra gente che l’unico obiettivo vero siano i posti.
La seconda è l’internità di tutta la sinistra, comunque collocata rispetto al centrosinistra, nel sistema politico separato dalla società.
Con la prima risposta si spiegano gli insuccessi di SEL e Rivoluzione Civile. Con la seconda il voto di gran parte della nostra gente al Movimento 5 Stelle.
Se tutto ciò è anche solo parzialmente vero, e se vogliamo lavorare affinché in Italia ci sia una sinistra che torni a contare nella società e quindi anche elettoralmente, si deve tener conto di entrambe le risposte insieme. Perché altrimenti la soluzione è totalmente sbagliata ed inefficace.
Si può, in presenza della crisi del bipolarismo, unire sui contenuti e sulla democrazia, ed essere alternativi al sistema politico separato, nel tempo nel quale anche l’alternatività del  Movimento 5 Stelle sarà messa alla prova dei fatti.
Il Partito della Rifondazione Comunista, con i suoi difetti e con le ferite subite dalle innumerevoli scissioni, non è morto. Ed ha sempre dato prova di non pensare soprattutto a se stesso ed ai posti nelle istituzioni. È stato indubbiamente il più generoso in tutte le iniziative di lotta ed unitarie. Ha un gruppo dirigente che certamente non è il migliore del mondo, ma che ha saputo e voluto resistere a tutte le lusinghe e tentazioni a separare il proprio destino da quello dei militanti e delle classi subalterne, per trovarsi un posto sicuro nel centrosinistra. Ha militanti, donne ed uomini, il cui valore ed attaccamento ai principi ed ideali comunisti, si vede proprio oggi, nel massimo della difficoltà.
Questo nostro partito ha imparato a resistere. Saprà imparare a ripensare se stesso come una parte indivisibile e incancellabile dentro una più vasta aggregazione di sinistra anticapitalista.