lunedì 30 dicembre 2013

AUGURI!!!!

Nessuno è nato schiavo, ne signore
ne per vivere in miseria
ma tutti siamo nati per essere fratelli.
( Nelson Mandela )

AUGURI A TUTTE E TUTTI 
 BUON ANNO.
 
Il segretario
Achille Peluchetti

lunedì 23 dicembre 2013

L'EDITORIALE DI DINO GRECO

LAVORO

Il "Job act" di Renzi: una porcata reazionaria

Ve ne erano tutte le premese e noi ne eravamo certi. Lo strombazzato "Job act", il piano per il lavoro con cui Renzi vorrebbe imprimere un deciso impulso al rilancio dell'occupazione in Italia non è che pubblicità ingannevole. Si tratta della riesumazione raccogliticcia del vecchio progetto di Pietro Ichino, vale a dire la definitiva riduzione dei lavoratori a forza lavoro precaria, a basso costo, priva di diritti esigibili, licenziabile ad nutum (al cenno) entro i primi tre anni di lavoro, a prescindere dalla motivazione con cui il padrone decida di rescindere il rapporto. Ma - in definitiva - anche dopo, considerato che l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, dopo la cura Fornero, non esiste più, poiché la reintegrazione nel posto di lavoro è stata sostituita dall'elargizione di una mancia, anche ove il licenziamento sia intimato senza giusta causa e giudicato illegittimo da un magistrato. La stabilizzazione dei rapporti di lavoro (a tutela progressiva nel tempo) esiste dunque solo nel titolo del progetto, ma non nella realtà. Tutti i contratti di lavoro, anche se formalmente riuniti in un'unica fattispecie, sono infatti "a tempo": l'azienda, e solo essa, è titolata a decidere sino a quando tenere in forza un lavoratore o quando invece sia giunto il momento, o l'oppotunità o, semplicemente, il desiderio di disfarsene. Non occorre scomodare sofisticate argomentazioni per comprendere che il lavoratore il cui rapporto di lavoro è in ogni momento appeso alla discrezionale volontà (più prosaicamente: agli umori) del suo datore di lavoro non è una persona libera, ma soggiogata dal ricatto implicito nell'asimmetria di forze fra i due soggetti e nell'impossibilità di fare valere qualsivoglia diritto, in quanto ciò potrebbe costargli molto caro. La stessa forza contrattuale dei sindacati, già ridotta al lumicino, scomparirebbe del tutto. In effetti, a ben guardare, questo progetto unifica davvero il balcanizzatissimo mondo del lavoro. Lo fa mettendo tutti sullo stesso piano: quello più basso.
Ma i regali alle imprese non finiscono qui. Renzi ne mette in cantiere due, entrambi formidabili: l'abolizione della cassa integrazione (al suo posto una modestissima indennità di disoccupazione, sul modello Aspi) e il trasferimento degli oneri contributivi per i neo-assunti allo Stato.
La prima operazione serve a dissolvere qualsiasi legame fra l'impresa e i suoi dipendenti nelle fasi di crisi. I padroni sono così assolti da qualsiasi vincolo al confronto con le rappresentanze aziendali dei lavoratori e con i sindacati: la flessibilità 'in entrata' si fonde mirabilmente con quella 'in uscita', "lacci e laccioli" che imponevano all'impresa qualche dovere di negoziazione e una qualche responsabilità sociale, sono del tutto recisi; i luoghi di produzione tornano ad essere - incondizionatamente - una 'zona franca', impermeabile a qualsiasi inferenza esterna alla giurisdizione imprenditoriale.
Ciò che è bene per i detentori dei mezzi di produzione - questa la filosofia immanente al progetto - è senz'altro bene anche per l'intera comunità e per il Paese. Mai come nel moderno progetto del rottamatore la libertà d'impresa, condizionata rigorosamente dalla Costituzione repubblicana, torna ad essere un principio assoluto. Matteo Renzi prova cioè a fare quello che Tony Blair fece al Labour e ai lavoratori britannici qualche decennio fa, portando a compimento l'architettura reazionaria di Margareth Tatcher. E chi vi si oppone è solo perché irriducibilmente malato di vetero-operaismo.
La seconda operazione, la fiscalizzazione degli oneri sociali per i neo-assunti, sgrava le imprese da costi che ad esse competerebbero e li mette in carico alla collettività. Anche in questo caso agisce prepotentemente un'idea falsa: quella secondo cui il lavoro lo si crea abbattendone il costo. Una tesi priva di qualsiasi riscontro. In primo luogo perchè il costo del lavoro è in Italia fra i più bassi del mondo occidentale e poi perché è provato l'esatto opposto, e cioè che la possibilità di disporre di manodopera a basso costo, oltre a promuovere forme di lavoro di tipo schiavile, diseduca le imprese, alleva una classe imprenditoriale con una mentalità parassitaria, ne alimenta le pulsioni peggiori, disincentiva una competitività fondata sugli investimenti e sull'innovazione, piuttosto che sullo sfruttamento ad libitum del lavoro.
Osserviamo, di passaggio, che rapiti da questa ispirazione di modernità ottocentesca, Renzi e i suoi ragazzotti non hanno invece ritenuto di applicare il proprio furore riformatore all'articolo 8 ( l. 148 del 2011) con cui Maurizio Sacconi, ex ministro del welfare del defunto governo Berlusconi, distrusse l'intangibilità del contratto nazionale di lavoro e delle stesse leggi dello Stato, prevedendo la possibiltà che all'uno e alle altre fosse possibile derogare previo accordi aziendali fra imprese e sindacati compiacenti. E se ne capisce la ragione. Quella cosetta lì a Renzi piace, poichè giova alla salute della nostra economia tutto ciò che fa piazza pulita delle più rilevanti conquiste del giuslavorismo moderno.
Allora non c'è proprio nulla di positivo nel Job act? Una cosa c'è. E' il sostegno renziano ad una legge sulla rappresentanza sindacale. Facciamo una scommessa? Sarà il solo aspetto di tutto il marchingegno che non andrà in porto. Ne riparliamo fra un po...
Dino Greco

giovedì 19 dicembre 2013

Lotta per l’Ucraina di Valerij Kulikov


Nove anni fa, la rivoluzione arancione (dal nome del colore della bandiera di Viktor Jushenko) fu
avviata in Ucraina con il sostegno finanziario e politico del governo e degli strateghi degli Stati
Uniti, con la partecipazione attiva dell’intelligence degli Stati Uniti e di numerose organizzazioni
non governative e di ricerca come l’Open Society Institute del miliardario George Soros, l’Harvard
University, l’Istituto Albert Einstein, l’International Republican Institute, il National Democratic
Institute, ecc. Questa rivoluzione fu la logica continuazione dell’operazione attuata da Washington e
dai suoi alleati europei, alla fine del secolo precedente, volta al “rinnovamento politico” dell’Europa
dell’Est e dell’ex Unione Sovietica, portando al potere i loro regimi fantoccio. Questi regimi
potrebbero cancellare dalla memoria dei popoli di questa regione la gratitudine per la Russia
che sentivano grazie alla lunga amicizia e collaborazione dalla Seconda guerra mondiale e dalla
successiva ripresa delle loro economie. Tali furono la “rivoluzione delle rose” in Georgia nel 2003,
la “rivoluzione arancione” in Ucraina nel 2004, la “rivoluzione dei tulipani” in Kirghizistan nel
2005, così come i tentativi di avviare la “rivoluzione dei fiordaliso” in Bielorussia nel 2006, e le
rivoluzioni colorate in Armenia nel 2008 e in Moldavia nel 2009. Notevoli fondi per
l’organizzazione di queste “rivoluzioni colorate” furono stanziati con il sostegno della statunitense
Fondazione per la Democrazia Est-Europea (SEED), finanziata dal dipartimento di Stato degli Stati
Uniti. Seguendo l’esempio di queste “rivoluzioni” e questi schemi già collaudati, la Casa Bianca
lanciò la “primavera araba” pochi anni dopo, ma le somiglianze degli schemi e della “guida” di tali
processi da parte di Washington sono chiare. Lo stesso per il ruolo “leader” della Casa Bianca nella
destabilizzazione di questi Paesi, in un primo momento, e poi nell’erogazione dei finanziamenti alle
autorità dell’opposizione attraverso “organizzazioni pubbliche e di ricerca” internazionali, per
comprarne sentimenti e discorsi volti a mettere al potere scagnozzi e burattini e, quindi, avere
l’accesso incontrollato alle risorse naturali tramite loro. In un primo momento, la Casa Bianca la
spuntò relativamente senza problemi in Ucraina. Grazie alla “rivoluzione arancione”, l’ascesa al
potere di V. Janukovich, orientato verso la Russia, fu bloccata e poi il loro uomo Viktor Jushenko fu
posto alla presidenza sull’onda dell’opposizione promossa da Washington nel 2004. Tuttavia,
durante gli otto anni della “presidenza arancione” gli strateghi politici d’oltremare non riuscirono a
cambiare completamente la mentalità della popolazione ucraina facendola diventare antirussa.
Quindi, nel 2012, come nel 2004, la popolazione dell’Ucraina rielesse presidente, sempre a
maggioranza, V. Janukovich. Tuttavia, un tale esito della lotta per l’ex-repubblica sovietica e
granaio dell’impero russo del 19° secolo, ovviamente, non soddisfece la Casa Bianca. In queste
condizioni, gli strateghi politici stranieri scelsero lo slogan sui presunti “benefici celestiali” per il
Paese con l’alleanza con l’Unione europea e l’indebolimento delle relazioni commerciali ed
economiche con la Russia; ulteriore strumento per destabilizzare la società ucraina e separarla dalla
Russia. In effetti, le “condizioni dell’alleanza” proposte dall’UE portano al netto peggioramento
della situazione sociale ed economica in Ucraina: la limitazione delle retribuzioni e dei dipendenti
del settore pubblico, aumento delle tariffe del gas per le famiglie e le aziende, il divieto di
partecipare all’Unione doganale. L’ultimo di tali requisiti è il più sensibile per l’economia ucraina,
incentrata sulla cooperazione con la Russia da decenni, e la cui rottura porterebbe inevitabilmente al
collasso della maggioranza delle imprese aumentando la disoccupazione nel Paese. Al fine di
aderire alle norme tecniche dell’UE, per essere competitivi e vendere i propri prodotti sul mercato
europeo, l’Ucraina, secondo le stime del Premier Azarov, avrà bisogno di circa 160 miliardi di
dollari nei prossimi dieci anni. L’UE è pronta a stanziarne solo una piccola parte, 1 miliardo,
chiaramente insufficiente, così spiegando la resistenza di Kiev verso tale pseudo-integrazione
europea.
L’interesse dell’Europa verso l’Ucraina è abbastanza comprensibile. Stabilire stretti rapporti di
alleanza con essa e separarla dall’Unione doganale aiuterebbe notevolmente commercialmente ed
economicamente l’Europa verso la Russia. L’Ucraina stessa, con le sue risorse naturali, i ricchi
terreni agricoli e 46 milioni di abitanti è sempre interessante per l’Europa, soprattutto per la
Germania, quale bersaglio allettante per la colonizzazione dalle imprese tedesche che potrebbero
produrvi prodotti a prezzi molto più bassi che in Cina. Tale interesse è stato più volte evidenziato
dal tentativo di occupare questo territorio durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia,
la Germania, l’Unione europea e gli Stati Uniti perseguono obiettivi non solo economici, ma anche
geopolitici, nella lotta per l’Ucraina. Data la perdita di influenza della Russia in Europa orientale, a
causa del crollo dell’Unione Sovietica, l’integrazione dell’Ucraina nell’UE contribuirebbe a una
rapida emarginazione della Russia nella politica ed economia europee. Per attuare tali piani,
Washington e l’UE si sono concentrati sulla popolazione usando tre partiti ucraini “addomesticati”,
che sono:
- l’Unione pan-ucraina “Batkivshyna“, guidata dalla detenuta ed ex-primo ministro Julija
Tymoshenko. Per tale scopo, l’Unione ha avuto anche lo status di membro del Consiglio di
Sorveglianza del Partito popolare europeo, l’Associazione dei partiti cristiano-democratici
e nazionalisti europei;
- Alleanza Democratica per la Riforma ucraina (Udar), guidato dal pugile peso massimo Vitalij
Klitschko che vive in Germania da molto tempo. Non essendo portavoce della popolazione ucraina,
il partito che nel 2010 contava circa 10000 aderenti, fu creato con l’aiuto del Partito democratico
cristiano della cancelliera tedesca Angela Merkel e del suo centro di analisi, la Fondazione Konrad
Adenauer. Quest’ultima ha attuato una palese interferenza negli affari interni dell’Ucraina,
organizzando seminari per “addestrare gli attivisti” dell’alleanza attraverso i social network e
internet;
- l’Unione pan-ucraina “Svoboda“. Anche secondo le conclusioni del tedesco Friedrich Ebert
Stiftung, “Svoboda” è un partito radicale dell’estrema destra nazionalista ucraina, che in
precedenza utilizzava un simbolo simile alla svastica come logo. Le dichiarazioni antisemite e
xenofobe dei leader di “Svoboda” furono fortemente criticate sia in Ucraina che all’estero,
mostrando l’ideologia di tale partito, le cui dichiarazioni pubbliche e retorica sono neo-fasciste e
neo-naziste. Tuttavia, come si può vedere, la Casa Bianca non rifiuta “servizi” da simili alleati per i
suoi scopi, diventando così complice di nazisti e xenofobi. Dopo che il governo e il Presidente
dell’Ucraina hanno rifiutato di accettare i termini evidentemente sfavorevoli dell’integrazione con
l’UE, Washington e Bruxelles gettarono forze sempre maggiori nella lotta per questa repubblica,
ignorando i principi del diritto internazionale in materia di non-ingerenza negli affari interni di uno
Stato straniero. Leader politici statunitensi ed europei furono inviati a sostenere i manifestanti che si
oppongono al presidente e al governo legittimi dell’Ucraina. L’ex primo ministro e leader del
partito conservatore polacco Legge e Giustizia Jaroslaw Kaczynski ha personalmente partecipato
alle manifestazioni dell’opposizione a Kiev. I manifestanti di Maydan Nezalezhnosti furono visitati
dalla sottosegretaria di Stato statunitense Victoria Nuland, che evidentemente aveva dimenticato
che la sua agenzia dovrebbe proteggere il diritto internazionale e non interferire negli affari interni
di un Paese straniero! L’opposizione ucraina e, in particolare, i neo-nazisti di “Svoboda“, sono
sostenuti dal governo tedesco che aveva recentemente dichiarato la sua disapprovazione verso le
attività similmente neo-naziste del Partito Nazionale Democratico di Germania. Se confrontiamo la
reazione dei politici europei e statunitensi alle misure per ripristinare l’ordine pubblico nel Paese
delle autorità ucraine, con l’assenza di qualsiasi reazione dei regimi politici occidentali ai recenti
giri di vite contro i manifestanti in Grecia, Spagna e Portogallo, la loro parzialità politica e i loro
pregiudizi sono evidenti. Le cose che accadono intorno l’Ucraina, oggi, non sono una lotta per la
democrazia e lo Stato di diritto, come i media europei e statunitensi comprati da Washington
cercano di presentare. Questa è la palese lotta per l’Ucraina, rivolta principalmente contro la Russia.
E’ facile intuire le prossime fasi degli strateghi in tale lotta, aumentare la destabilizzazione della
società ucraina, maggiore corruzione e sostegno finanziario all’opposizione. E, come ultima
opzione, Washington ha esperienza nell’imporre soluzioni ai conflitti interni in Iraq, Libia, Siria…

Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi

Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi

Il peggior lascito del ventennio berlusconiano si chiama Matteo Renzi. Nonostante il colpo di fulmine che ha provocato in Maurizio Landini, penso che il segretario del Pd rappresenti l'ennesima riverniciatura delle politiche liberiste che ci han portato a questa crisi e che ora la stanno aggravando. Lo dimostrano i primi suoi atti di governo.
Il suo staff sta preparando un altro attacco all'articolo 18, quello che nell'Italia garantista solo verso i potenti suscita scandalo perché stabilisce che chi è licenziato ingiustamente, se il giudice gli dà ragione, deve tornare al suo posto di lavoro. Questo principio di civiltà ha già molte limitazioni, non si applica sotto i quindici dipendenti ed è reso nullo dalla marea di contratti precari. Inoltre con un accordo con il governo Monti Cgil Cisl Uil hanno accettato di liberalizzare i licenziamenti cosiddetti economici, che in una crisi come questa significa via libera alla cacciata di tante e tanti. Ma nonostante questo ultimo atto di autolesionismo sindacale Renzi vuole di più.
Il progetto per il lavoro annunciato dal suo staff prevede la cancellazione dell'articolo 18 per tutti i nuovi assunti. In cambio verrebbero diminuiti i contratti formalmente precari. Questo per la ovvia ragione che essendo possibile il licenziamento a discrezione, il contratto precario perderebbe ragione d'essere. Se posso cacciarti quando voglio perché devo scervellarmi a trovare il contratto capestro più adeguato, semplicissimo no?
È ovvio che questo è solo un passaggio intermedio verso l'abolizione totale della tutela contro i licenziamenti ingiusti. Infatti se tutti i nuovi assunti saranno privi di quella tutela per un bel po' di tempo, le aziende saranno interessate a chiudere e licenziare per riassumere senza diritti. E chi li dovesse mantenere sarebbe considerato un privilegiato da combattere. Il renziano Pietro Ichino sostiene anni che nel mondo del lavoro vige l'apartheid come nel Sudafrica prima della vittoria di Mandela. Peccato che così si faccia l'eguaglianza a rovescio. Come se in quel paese, invece che estendere ai neri i diritti dei bianchi, si fosse deciso di rendere tutti eguali togliendo quei diritti a tutti.
La soppressione dell'articolo 18 non è certo una novità. Da sempre in Italia è rivendicata dalle organizzazioni delle imprese quando non sanno che dire e fu tentata dal governo Berlusconi nel 2002. La CGIL di allora però riuscì a impedirla.
In Spagna i governi hanno da tempo liberalizzato i licenziamenti, e quel paese oggi è l'unico grande stato europeo con un tasso di disoccupazione superiore al nostro. In Francia ci provò il presidente Sarkozy a introdurre una misura simile a quella che piace oggi a Renzi. Fu fermato da una gigantesca protesta giovanile e popolare.
La seconda iniziativa del neoeletto leader è stata quella di mettersi di traverso rispetto a quella che è stata chiamata la Google tax. Cioè un tenuissimo provvedimento di tassazione sugli affari delle grandi multinazionali che operano nella rete e che hanno sede legale in paradisi fiscali. Queste società guadagnano miliardi da noi e non pagano un centesimo, come ha ricordato quel comunista di Carlo De Benedetti. E come soprattutto ricorda la Corte dei Conti, che da tempo afferma che la quota più rilevante dei tanti miliardi che mancano al fisco viene dalla elusione fiscale delle grandi società che giocano con le sedi legali all'estero.
Il progressista Renzi ha subito detto a Letta che questa tassa non s'ha da fare, e così è stato.
Viene da chiedersi, ma dove sta il nuovo in tutto questo? Sviluppare l'economia con la flessibilità del lavoro e la detassazione dei ricchi e delle multinazionali, è il principio guida delle politiche liberiste che hanno dominato negli ultime trenta anni. Siamo ancora qui, sono queste le "riforme"?
Se è così, il progetto di Matteo Renzi più che essere il nuovo che avanza, è l'avanzo di quel nuovo che ci ha portato al disastro attuale.
Giorgio Cremaschi
in data:18/12/2013

martedì 17 dicembre 2013

LETTERA DI INSEDIAMENTO DEL SEGRETARIO DEL CIRCOLO DI VALLECAMONICA ACHILLE PELUCHETTI

Ciao a tutti e tutte.
Prima di tutto voglio ringraziare tutti i compagni che hanno partecipato al nostro congresso e che mi hanno indicato come segretario di circolo, credo che sia un ruolo importante e stimolante, spero di essere all'altezza del compito.

 Dopo i vari congressi svolti, siamo in attesa di un nuovo gruppo dirigente e un nuovo segretario/segretaria 
( verranno decisi probabilmente nel prossimo C.P.N a gennaio ).

Nel frattempo ritengo importante partire come circolo, dandoci un obiettivo, una struttura e un piano di lavoro.

Primo obiettivo: rilanciare il partito sul territorio anche attraverso iniziative che coinvolgano altre realtà di sinistra ( movimenti, sindacato e altro ). Credo importante su questo punto ragionare tutti assieme anche sulla possibilità di avere una sede di circolo, dove incontrarsi ma sopratutto dove sia esplicita la presenza del partito sul territorio magari riattivando la sede storica di Cividate, mantenendo comunque il rapporto e il coordinamento con i compagni di Castro.

Struttura: penso a un circolo che sia in grado di riavvicinare compagni che non si sono più iscritti, o compagni che si iscrivono al partito per la prima volta.
Penso ad una organizzazione cosi composta: Segretario, responsabile organizzazione/tesseramento, tesoriere, responsabile comunicazione
Questo, dal mio punto di vista ci può aiutare a lavorare meglio ed essere più incisivi.

Piano di lavoro: raccolta di firme per la proposta di legge di iniziativa popolare sul lavoro, questo richiede uno sforzo per predisporre banchetti per raccolta firme, volantinaggi, informazione.

Naturalmente queste sono proposte che devono essere valutate da tutti i compagne e le compagne del circolo,sarà l'occasione per ragionare tutti su che tipo di partito vogliamo e sappiamo mettere in campo. 

Questo è il mio primo contributo, spero possa essere utile per una riflessione collettiva.

A presto
Achille Peluchetti.  

mercoledì 11 dicembre 2013

LA LOTTA CONTINUA!!!!!


«La lotta continua! La vittoria è certa! Amandla ngawethu!»

Compagno Presidente,
Compagni e amici,
Questo è un importante giorno nella storia politica del nostro paese. È un giorno che potrebbe dare conforto e speranza a chiunque in Sudafrica consideri se stesso o se stessa un Democratico. È importante perché segna la fine di un periodo di esattamente 40 anni, durante il quale dichiarato intento e pratica dello stato era la soppressione di tutte le opinioni politiche che non fossero certificate dal governo del Partito Nazionale come legittime e permesse. Sicuramente, ci sono, oggi, sorrisi felici sui volti dei pensatori politici che dissero che, pur se in disaccordo con opposti punti di vista che alcune persone avrebbero potuto esprimere, avrebbero comunque difeso con le loro vite il diritto democratico di questi oppositori ad esprimerle.
L’Anc non è un partito comunista. Ma è un difensore della democrazia, ha combattuto e continuerà a combattere per il diritto all’esistenza di un partito comunista. Come movimento per la liberazione nazionale, l’Anc non ha alcun mandato per propagandare l’ideologia marxista. Ma come movimento democratico, come Parlamento del popolo del nostro paese, l’Anc ha difeso e continuerà a difendere il diritto di qualsiasi sudafricano a aderire all’ideologia marxista se questa è la sua volontà.
Per noi come movimento democratico, la lezione della nostra storia è molto chiara. È quella dei popoli dell’Europa imparata durante il turbolento decennio degli anni ’30, quando il fascismo iniziò il suo assalto verso la democrazia lanciando una violenta offensiva contro i comunisti. È la stessa lezione che il popolo degli Stati Uniti apprese durante il decennio degli anni ’50, quando le forze del Maccartismo lanciarono un assalto volto a minare il patrimonio democratico del popolo americano, conducendo un offensiva virulenta contro i comunisti e le opinioni di sinistra. I teologi della Chiesa tedesca capirono questi processi molto bene quando dissero che la Chiesa cristiana non aveva fatto nulla quando i nazisti attaccarono i comunisti. E nuovamente la Chiesa non fece nulla quando i nazisti volsero le loro brutali attenzioni verso i socialisti. E quando i nazisti si rivolsero verso gli uomini cristiani e le donne di tale coscienza, la Chiesa scoprì che non viera più nessuno a difenderla.
Questo è un errore che l’Anc non ha mai fatto, perché capimmo che aver reso illegale il Partito Comunista nel 1950, era un preludio alla soppressione di tutte le opinioni democratiche nel nostro paese. Questa è una lezione che coloro i quali sono all’interno del Partito Nazionale, e si considerano democratici, devono imparare al più presto.
La lezione che debbono imparare è che fu fondamentalmente sbagliato l’aver emanato il decreto per la soppressione del comunismo nel 1950. La lezione che debbono imparare è che è fondamentalmente sbagliato oggi cercare di creare un clima di tolleranza democratica di diversi punti di vista tentando di demonizzare coloro che scelgono di avere opinioni comuniste. Una posizione come questa conduce ad una cosa e una cosa soltanto, vale a dire, la negazione e la soppressione della democrazia stessa.
Siamo qui oggi per partecipare con voi al rilancio del Partito Comunista, 40 anni dopo la sua soppressione. Lo facciamo perché durante gli ultimi 70 anni della sua esistenza, il Partito Comunista si è distinto come un alleato nella lotta comune per la fine dell’oppressione razziale e dello sfruttamento delle masse nere nel nostro paese. Esso ha lottato fianco a fianco con l’ANC con lo stesso obiettivo della liberazione nazionale del popolo, senza cercare di imporre le sue visioni sul nostro movimento. È stato ed è un amico affidabile che ha rispettato la nostra indipendenza e la nostra politica. I suoi membri sono stati dei devoti congressisti che, come membri dell’ANC, hanno propagandato e difeso le politiche del nostro movimento, inclusa la Freedom Charter (Carta della Libertà, NdT), senza esitazione. Hanno quindi dato forza al nostro movimento, qualunque fossero le loro diverse prospettive come formazione politica indipendente. I suoi capi sono stati stretti amici e colleghi dei capi del nostro movimento.
Il segretario generale del Partito Comunista, compagno Joe Slovo, è un vecchio amico. C’è una vecchia e stabile amicizia che lega la sua famiglia alla mia. Siamo andati all’università insieme. Siamo stati imputati insieme nei processi per tradimento del 1956 e del 1961. Nel corso degli anni, abbiamo condiviso le stesse opinioni su questioni fondamentali come la fine del sistema criminale dell’apartheid e la trasformazione democratica del nostro paese. Oggi condividiamo le stesse visioni riguardo l’importanza vitale e l’urgenza di arrivare ad soluzione politica attraverso i negoziati, in condizioni di pace per tutto il nostro popolo. Questa personale e politica relazione è stata in grado di durare durante gli anni precisamente perché Joe Slovo e i suoi colleghi del Partito Comunista hanno compreso e rispettato il fatto che l’ANC è un corpo indipendente. Non hanno mai provato a trasformare l’ANC in una marionetta del Partito Comunista. Hanno combattuto per difendere il carattere dell’ANC come il Parlamento degli oppressi, contenente al suo interno persone dalle differenti visioni ideologiche, le quali sono unite da una prospettiva comune di emancipazione nazionale rappresentata dalla Freedom Charter.
Anche quando ci siamo messi insieme al compagno Joe Slovo e ad altri nel 1961 per formare l’Esercito del Popolo, Umkhonto we Sizwe (Lancia della nazione, NdT), abbiamo compreso il ruolo specifico che Umkhonto avrebbe dovuto giocare. Abbiamo capito che nonostante la repressione dello stato ci avesse costretto a prendere le armi, questo non avrebbe dovuto fare dell’ANC uno schiavo della violenza. Sapevamo che i quadri che formavano Umkhonto we Sizwe avrebbero dovuto essere uomini e donne che dovevano rispettare l’autorità politica dell’ANC, e sapevamo che dovevamo sempre partire dal fatto che avevano preso le armi precisamente per aiutare a stabilire un ordine democratico nel quale le persone avrebbero avuto il diritto alla libertà di opinione politica e di espressione, senza paura di alcuna intimidazione da qualsiasi parte.
Tali sono le opinioni degli uomini e delle donne che hanno composto la nostra gloriosa armata. Suggerire, come alcuni fanno in questi giorni, che questi eccezionali figli e figlie del nostro popolo covino idee di un’azione militare unilaterale contro il processo di pace, è un insulto fabbricato dai nemici della democrazia i quali hanno costruito reti cospiratorie all’interno delle strutture di potere nel nostro paese.
Tutti, governo incluso, sanno anche che l’ANC è la formazione politica che dispone l’uso strategico delle armi nelle mani dell’Esercito Popolare. Il nostro movimento, il quale ha una storia illustre e incontrastata nella ricerca di soluzioni pacifiche, non ha mai abbandonato da parte sua la strategia della lotta non violenta, anche quando il regime dell’apartheid fece tutto ciò che era in suo potere per rendere questo tipo di lotta impossibile. Non possiamo ora rivoltarci contro una risoluzione pacifica del conflitto nel nostro paese, soprattutto dal momento che tale risoluzione sembra possibile.
Coloro che oggi si atteggiano a esperti sulla struttura e la strategia del nostro vasto movimento per la liberazione nazionale devono capire questo ABC della nostra lotta. Ciò che questo ABC indica è l’impegno dell’alleanza guidata dall’ANC di fare tutto ciò che è in suo potere per arrivare a una soluzione pacifica dei problemi che affliggono il nostro paese.
Cari compagni e amici,
l’obiettivo che abbiamo perseguito fin dalla nostra costituzione 78 anni fa rimane invariato.
Dobbiamo muoverci il più rapidamente possibile affinché il sistema dell’apartheid sia abolito e nella trasformazione del Sudafrica in un paese unito, democratico, antirazzista e antisessista. Abbiamo iniziato le trattative con il governo per la realizzazione di tali obiettivi. Poiché abbiamo urgenza di ottenere la nostra emancipazione, insistiamo sul fatto che i colloqui debbano andare avanti.
La nostra libertà non può essere posticipata o negata solo perché alcune persone hanno piani segreti per sostenere una crociata antidemocratica contro i comunisti. Ma insistiamo anche sul fatto che il dialogo debba procedere in condizioni di pace. Pertanto la violenza della polizia contro il popolo deve finire. La violenza dei vigilantes neri e bianchi contro il popolo deve finire. Se è sinceramente interessato alla pace e alle trattative, il governo deve agire per ottenere tale risultato.
Vogliamo ripetere qui ciò che l’intero movimento democratico del nostro paese ha detto in passato: che nel contesto di una conclusione della violenza di stato e di un processo politico che ci conduca alla liquidazione del sistema dell’apartheid, noi stessi siamo pronti a discutere la sospensione delle nostre azioni armate per assicurare che la pace e la stabilità possano prevalere in tutto il nostro paese.
Ci appelliamo al governo affinché risponda positivamente a queste posizioni, per abbandonare il tentativo di creare nuovi ostacoli sponsorizzando un’isteria anticomunista, ad agire in modo responsabile nell’interesse di tutto il nostro popolo, nell’interesse della causa di giustizia e di pace. Cari amici del Partito Comunista: Sappiamo di poter contare sul vostro supporto nell'ottenimento di questi obiettivi.
È nostro assoluto desiderio che voi, come tutte le altre formazioni politiche nel nostro paese, siate partecipanti attivi in questo processo storico che ci condurrà ad una risoluzione pacifica dei problemi che si presentano nel nostro paese e in mezzo al popolo. Estendiamo a voi i nostri migliori auguri del movimento popolare, dell’ANC, e ci auguriamo di proseguire la cooperazione nella lotta comune per portare la libertà, la pace e la sicurezza a tutte le persone del nostro paese.
La lotta continua! La vittoria è certa! Amandla ngawethu! (Potere al popolo, ndt).
(Traduzione a cura di Carlo Eridan)
Nelson Mandela
in data:10/12/2013

martedì 10 dicembre 2013

L'EDITORIALE DI DINO GRECO

Grillo, i "forconi" e la lotta di classe che non c'è

E' la rivolta, o forse l'insurrezione, quella che evoca il guru del M5S, quando si rivolge, con una lettera aperta pubblicata sul suo blog, a Leonardo Gallitelli, comandante generale dell'Arma dei Carabinieri, ad Alessandro Pansa, capo della Polizia di Stato e a Claudio Graziano, Capo di stato maggiore dell'Esercito italiano. Lui, Grillo, vorrebbe che dalla Polizia fino all'Esercito, passando per i Carabinieri, tutte le Armi del paese si unissero alla singolare rivolta accesa dai "forconi", che a Torino per ore hanno fatto quello che volevano in una città dove lo Stato, inteso come "forze dell'ordine", si era semplicemente ritirato, mentre la grandissima parte dei negozi aveva abbassato le serrande. Una solidarietà che Grillo, tuttavia, si era ben guardato da invocare quando mille volte, in questi anni segnati dalla crisi e dalle politiche di austerity, lavoratori, operai, precari, studenti hanno attraversato con i loro cortei le strade e le piazze del paese, in ogni dove, incontrando anch'essi le forze dell'ordine, solerti, in questi casi, nel somministrare ai manifestanti massicce dosi di manganellate. Non una volta che i poliziotti, men che meno gli uomini della "Benemerita", si siano tolti il casco di fronte agli operai che si battono contro i licenziamenti, che presidiano aziende di padroni in fuga, o che abbiano una sola volta tentennato quando si è trattato di cacciare i nomadi dalle loro povere catapecchie, o che un fremito della coscienza abbia loro impedito di dare esecuzione ad uno sfratto nei confronti di famiglie in condizioni disperate da case delle quali sia stato ordinato lo sgombero. Il generoso cuore di Grillo non ha mai palpitato di fronte a quelle repressioni violente compiute in difesa della borghesia proprietaria. Non fa niente se imbelle e fraudolenta. Ora che nella protesta si mischia di tutto, ora che le pulsioni più diverse dominano un moto che assume i tratti della jacquerie, ecco che l'egoarca prova a mettercisi a capo. Per suonare una volta ancora la grancassa e mietere qualche facile consenso. Come sempre, nella debordante oratoria demagogica di tutti i populisti, le ragioni profonde di un'acuta sofferenza sociale si mischiano all'invettiva rivolta verso un'indifferenziata casta, verso la politica incapace di tutto. "I disordini - scrive Grillo - sono dovuti a gente esasperata per le sue condizioni di vita e per l'arroganza, sordità, menefreghismo di una classe politica che non rinuncia ai privilegi". Ma quella classe politica è espressione di classi sociali dominanti a cui Grillo evita di imputare alcunché. Per rivolgersi, con parole inquietanti, alle gerarchie militari del Paese, come se le loro inclinazioni fossero, in Italia, quelle della "rivoluzione dei garofani" dei militari portoghesi che nell'aprile del 1974 portò alla caduta dele regime fascista di Salazar. Come se la democrazia ingessata e corrotta della Seconda repubblica potesse vivere un bagno rigeneratore grazie all'entrata in campo delle forze armate italiane. Roba che mette i brividi solo a pensarci. Ma anche quest'ultima sparata di Grillo ripropone il vero tema di questa terribile stagione politica: l'assenza di una guida sociale delle lotte (il sindacato) e la latitanza di un soggetto politico (il partito) che sappia assumerne la rappresentanza politica, scansando il rischio di una torsione reazionaria e di una rottura democratica dagli esiti devastanti. E' l'assenza della lotta di classe che fa di sommosse come quelle che sempre più spesso scuotono il paese il ricettacolo, il brodo di coltura di spinte qualunquistiche su cui la destra estrema può costruire le proprie fortune e, persino, alimentare le proprie mai sopite tentazioni golpiste.
Dino Greco
in data:10/12/2013

lunedì 9 dicembre 2013

Rifondazione, finito il congresso. Sul segretario si farà una consultazione



Rifondazione, finito il congresso. Sul segretario si farà una consultazione
Dopo tre giorni di dibattito serrato (qui l'archivio video), il IX congresso di Rifondazione comunista si chiude senza l'elezione del nuovo gruppo dirigente. Cioè senza aver sciolto quello che via via si è confermato essere il nodo centrale: il rinnovamento del gruppo dirigente e la conferma o meno di Paolo Ferrero. Uno stallo di cui hanno preso atto tutti i protagonisti dello scontro interno al partito e lo stesso Ferrero quando, nelle conclusioni, ha sottolineato che sul tema «non si sono fatti passi avanti», avanzando una «proposta controcorrente»: che si svolga una consultazione, tra i 170 componenti del nuovo Comitato politico nazionale eletto dal congresso, su direzione, segreteria e segretario, da svolgersi entro un mese. Proposta che Cpn ha accolto a stragrande maggioranza.
Sebbene il documento sostenuto dal segretario uscente avesse ottenuto la maggioranza, con il 76 per cento dei consensi nei congressi di circolo, è stato proprio all'interno della maggioranza che si è consumato lo scontro più acceso. Da una parte l'area di Essere comunisti che ha continuato a chiedere il rinnovamento del gruppo dirigente a partire proprio dal segretario. Dall'altra i "ferreriani", secondo i quali la scelta del segretario discende dalla linea politica e le responsabilità dei fallimenti elettorali e della perdita di consenso del partito vanno in capo a tutti coloro che facevano parte dei gruppi dirigenti e dunque anche degli esponenti di Essere comunisti.
Una contrapposizione che il dibattito congressuale non ha risolto. «Noi restiamo convinti che, dopo cinque anni di insuccessi, il gruppo dirigente e il segretario devono essere cambiati - riassume Claudio Grassi - Se vogliono confermare Ferrero, vedremo se ci sono i numeri». Un candidato alternativo? «Se non c'è condivisione sulla necessità di segnare una discontinuità, è perfettamente inutile avanzare una proposta alternativa. Era necessario che Ferrero facesse un passo indietro, cosa che non ha fatto. Allora sarebbe stato possibile trovare un candidato condiviso; da parte nostra non ci sarebbe stato un veto nemmeno sul nome di un "ferreriano", purché ovviamente fosse il segno di un reale cambiamento e a condizione di operare una sintesi politica del primo documento».
«Se le sconfitte sono collettive le responsabilità devono essere assunte collettivamente; superare lo sbarramento del 4 per cento era una missione impossibile», ha risposto indirettamente Maurizio Acerbo, che nel suo intervento ha lanciato un appello all'unità: «Da questo congresso deve uscire il segnale che Rifondazione comunista tutta insieme, unita, si dice disponibile a costruire una sinistra per chi non vuole un nuovo Berlusconi e si vuole opporre alle politiche neoliberiste e alla demolizione dello stato sociale». E ancora, a dibattito in corso, si augurava di riuscire ad eleggere il segretario «se faremo sforzi per una chiusura unitaria del congresso». Così non è stato.
Sandro Targetti, tra i promotori del terzo documento, rivendica di aver condotto una battaglia politica chiara, tenendosi alla larga da qualsiasi «accordicchio». Come Grassi, rivendica la necessità di una svolta di linea politica e dei gruppi dirigenti, ma rimprovera al leader dell'area di Essere comunisti una linea politica «moderata» e «ambigua» sulla collocazione rispetto al Pd e al centrosinistra. «Noi giudichiamo centrale la rifondazione di un partito comunista, cioè prendersi cura di questo partito, e la riproposizione della questione sindacale, un terreno sul quale, come rispetto al rapporto col Pd, abbiamo misurato ambiguità e contraddizioni: la nostra deve essere una battaglia per rifondare un sindacato di classe». Quanto al segretario «non è un bel segnale» che la maggioranza voglia ripresentare Ferrero: «Doveva essere lui a costruire un ricambio del gruppo dirigente. Per parte nostra, insistiamo sulla necessità di una svolta di linea politica e se i temi che noi poniamo non saranno presi in considerazione nella commissione politica, siamo pronti a preparare un nostro documento politico finale». E così hanno fatto, benché con dissensi interni, i compagni del terzo documento.
«La nostra proposta di un partito di classe non è stata accolta - considera Alessandro Giardiello (Falce e martello) - ma si farà una verifica e chi ha più tela tesserà. E sarà una sfida sul terreno della mobilitazione sociale». E a chi fa «la retorica del cambiamento», Giardiello annuncia che lui e altri compagni dell'area non torneranno nel Cpn, con un cambiamento dei due terzi della propria rappresentanza «perché non ha senso logorarci in lotte intestine in un partito che non influenza più niente e nessuno». Anche l'area di Falce e martello ha, come per altro scontato, votato un proprio documento politico finale in dissenso da quello della maggioranza.
Diverso, invece, l'orientamento finale di Essere comunisti, che, nonostante la dura battaglia congressuale, ha deciso di votare a favore del documento politico della maggioranza, segnando così una ricomposizione all'interno del primo documento.
Resta la questione degli organismi dirigenti. Ferrero ha motivato la proposta della consultazione sostenendo che sarebbe sbagliato scegliere il nuovo gruppo dirigente «discutendo tra aree e sottoaree», che sarebbe «il peggio» di come ha funzionato finora il partito. «Il punto non è che "Rifondazione ha la linea ma non il segretario"; il punto è ribadire che noi crediamo sul serio alla necessità del rinnovamento anche di come funzioniamo e dunque ci prendiamo il tempo necessario per fare una discussione trasparente su chi deve portare avanti la linea politica che ci siamo dati». Proposta accolta da tutte le aree del partito, anche se Falce e martello e il gruppo del terzo documento per ora annunciano che non faranno parte della commissione incaricata di portare avanti il compito fino al prossimo Cpn, quello decisivo, già fissato per l'11 e 12 gennaio prossimi.
È stato infatti deciso di nominare una commissione, composta da Mimmo Caporusso, Dino Greco e Giovanna Capelli, i quali elaboreranno il "quesito" sul quale i componenti del Cpn dovranno esprimersi (i tre documenti del congresso possono, entro giovedì, far pervenire una propria proposta scritta) relativam criteri per la formazione della direzione nazionale e della segreteria nazionale e sulla scelta del segretario. Il percorso si concluderà, appunto, nel Cpn di gennaio. Che a quel punto potrà eleggere i nuovi gruppi dirigenti, segretario compreso.
Romina Velchi

LIBERAZIONE DEVE VIVERE!!!!


L'ordine del giorno approvato dal IX congresso: "Liberazione deve vivere!"

Liberazione deve vivere. Non per se stessa, ma perchè un partito - e specialmente un partito comunista - non può privarsi di un fondamentale strumento di controinformazione, lotta politica e culturale.
 Perché ciò avvenga, perché intanto non si spenga la piccola luce della pubblicazione on line, è necessario un impegno immediato e straordinario a sottoscrivere gli abbonamenti. E questo impegno, solennemente, ognuno e ognuna di noi assume oggi. Perché il giornale non è di qualcuno, ma di tutta la nostra comunità. E vive se le strutture di partito, se i circoli che ne sono la nervatura, se i singoli compagni e compagne, protagonisti di battaglie, conflitti, pratiche sociali e politiche concorrono a scrivervi e a farne un elemento di coesione della rete dei nostri militanti.
La ricostruzione dell'insediamento sociale di Rifondazione, la cura del partito che vogliamo reggere su più solide fondamenta, passa anche di qui.
La sfida va vinta oggi. Domani è già tardi.
Odg presentato da:
Dino Greco, Marco Ravera, Stefano Galieni, Pasquale Voza, Ramon Mantovani, Fabio Amato, Maurizio Acerbo, Giovanni Russo Spena, Nando Mainardi, Loredana Fraleone, Marco Gelmini, Antonio Marotta, Alessandro Giardiello, Sandro Targetti, Massimo Rossi, Bianca Bracci Torsi, Ezio Locatelli, Citto Maselli

DAL CONGRESSO NAZIONALE.........



“L’orgoglio di Ferrero: mai con questo centro sinistra”

“L’orgoglio di Ferrero: mai con questo centro sinistra”

di Riccardo Chiari – il manifesto – Piccoli e poveri, i comunisti. E con stile. Unici ad affidare al genio di Frank Zappa (le Little Umbrellas di Hot Rats) il prologo di un congresso nazionale. Unici anche nel volersi male, se dopo una relazione a 360 gradi, Paolo Ferrero osserva: “Eravamo un albero, poi siamo diventati un bonsai, ora siamo uno stuzzicadenti senza radici. Ma il nostro tasso di litigiosità è rimasto quello di prima: i posti dove si parla peggio di Rifondazione sono le nostre riunioni”. Anche per questo dal segretario uscente arriva l’ennesima richiesta di una gestione unitaria, sia pure nella chiarezza della linea politica decisa grazie al voto dei militanti.
Non sarà un obiettivo facile, visto che dietro le polemiche sull’esito di qualche congresso di federazione (Cosenza), la discussione interna alla mozione di stragrande maggioranza (Ferrero-Grassi) può assumere traiettorie anche imprevedibili. Compresa la messa in discussione dello stesso Ferrero, che pure non è stato bocciato dagli iscritti nonostante gli ultimi, amari risultati elettorali. Ed è autore, in due ore di relazione, di un’analisi a tutto campo. Che prova anche a dare risposte sul che fare, offrendo la visione politica di un polo di sinistra alternativo al Pd e alle formule elettorali di centrosinistra. Già a partire dalle prossime elezioni europee. “Un polo da costruire – spiega Ferrero – non mettendo il nostro cappello ma senza dover abiurare, perché siamo comunisti e orgogliosi di esserlo. Quindi una testa un voto, senza accordi di vertice o pattizi”. Quelli che, insieme alle mai risolte ambiguità nel rapporto con il centrosinistra a fortissima trazione Pd, hanno portato secondo il segretario uscente al fallimento sia della Federazione della Sinistra che di Rivoluzione Civile.
Ad ascoltare la relazione i 380 delegati e molti ospiti. Curdi, palestinesi, cubani, cinesi, saharawi e greci. Poi Maurizio Landini della fiom, Piero Bernocchi dei Cobas e Fabrizio Tomaselli dell’Usb. Franco Turigliatto per Ross@ e Marco Ferrando del Pcl. Angelo Bonelli dei Verdi, Nicola Fratoianni di Sel e Cesare Procaccini del Pdci. Sala tutta in piedi, nel minuto di silenzio per Nelson Mandela, e poi attenta per i centoventi minuti in cui Ferrero ha di volta in volta criticato Giorgio Napolitano (“Non è stato garante della Costituzione nemmeno sul tema delle legge elettorale dopo la decisione della Consulta”), e una Unione Europea “che è diventata il contrario di quello che doveva essere l’Europa che abbiamo sognato. Quindi questa Ue va contrastata, e per questo dobbiamo disobbedire ai trattati, al fiscal compact e al pareggio di bilancio e smettere di dire signorsì ad Angela Merkel”.
Sinistra alternativa al Pse in un’Europa che sta distruggendo il welfare. Sinistra alternativa al Pd – e ai suoi alleati – in un’Italia che ha bisogno di seguire una strada opposta a quella attuale per uscire dalla crisi: “Non si può fare l’ala sinistra degli F35. Il Pd sta governando facendo politiche di destra con un ex democristiano come Enrico Letta, e adesso sceglierà il nuovo segretario, probabilmente un altro ex democristiano come Matteo Renzi. Non ha più nulla di sinistra. Per questo tutte le forze di sinistra del paese devono cercare di costruire un polo alternativo e autonomo dal centrosinistra”. Con una traccia di programma già rilevabile nel “Piano per il lavoro”, sui cui Rifondazione raccoglierà le firme per una legge di iniziativa popolare. “La logica è quella di prendere i soldi dove ci sono: dunque una patrimoniale sulle ricchezze superiori agli 800mila euro. Un tetto a stipendi e pensioni sopra i 4mila euro nella pubblica amministrazione. Una maggior tassazione sui redditi più alti, e la lotta, seria, all’evasione fiscale. Poi si tagliano le spese militari come l’acquisto degli F35, e si cancellano altri sprechi come le grandi opere inutili, a partire dalla Tav. Da questi interventi si possono ricavare circa 90 miliardi per l’istruzione, la sanità e l’assistenza. Poi il riassetto del territorio, il recupero del patrimonio archeologico, la ristrutturazione degli acquedotti e una generale riconversione ambientale dell’economia. Con queste politiche si possono creare da 1,5 a 2 milioni di posti di lavoro. Non tutti pubblici, ma tutti per interventi di pubblica utilità, a seconda delle esigenze di ogni territorio.

venerdì 6 dicembre 2013

IN RICORDO DI NELSON MANDELA

 E' morto Nelson Mandela, il combattente della libertà

 E' morto Nelson Mandela, il combattente della libertà

Eroe della lotta contro l'apartheid, è morto a 95 anni nella sua casa di Johannesburg. Il paese è in lutto, la gente sfila per le strade e gli uffici hanno le bandiere a mezz'asta. Dal carcere al Nobel, una vita dedicata alla liberazione di un intero popolo oppresso. E' stato il primo leader nero dopo la fine della segregazione razziale.
Si ribellò. Quella era la sua terra, il suo paese, il paese dove era nato e dove erano nati suo padre e sua madre; ma lì, in quel suo paese, una legge detta dell'apartheid rendeva ormai la vita insopportabile e indegna. L'avevano inventata e imposta, quella legge, i dominatori bianchi e, in base ad essa, lui e tutti gli altri africani come lui dovevano subire molte cose.Tanto per dire. Separazione netta tra bianchi e neri nelle zone abitate da entrambi; istituzione dei bantustan, cioè ghetti per soli neri; proibizione dei matrimoni interrazziali; proibizione di rapporti sessuali tra neri e bianchi (costituiva reato passibile di carcere); obbligo di registrazione civile in base alla razza; divieto di accesso a determinate aree urbane; divieto di uso delle stesse strutture pubbliche, tipo fontane, marciapiedi, sale d'attesa; discriminazione nelle scuole e nei posti di lavoro; obbligo di passaporto per accedere alle aree urbane dei bianchi; divieto di ogni forma di opposizione (in special modo se di stampo socialista, comunista e comunque in qualche modo riferibile all’AFC, African National Congress).
Prigionieri nella propria terra, esclusi e assoggettati, defraudati dei loro diritti e delle loro risorse. Quello era il Sudafrica, la sua terra. Una terra bellissima, con terreni fertili e clima mite, ricca di minerali preziosi (platino, diamanti, oro), diventata colonia e dominio di olandesi e inglesi fin dal secolo XVII. Quella sua terra strangolata dai crudeli padroni bianchi (è sotto il governo di Hendrich F. Verwoerd, passato alla storia come il perfezionatore, anzi "l'architetto dell'apartheid", che la segregazione dal 1948 è diventata compiuta legge di Stato).
Si ribellò. Lui, Nelson Mandela, a tutto questo decide di ribellarsi. Per la verità il suo vero nome è un altro. È nato il 18 luglio 1918 in un piccolo villaggio del Transkei e, come tutti in Sud Africa, acquisisce il nome inglese di Nelson il I° giorno di scuola; ma il suo vero nome è Rolihlahla, che poi significa "quello che porta guai".
Lui non è nemmeno tra i più sfortunati; lui è figlio di un capotribù Thembo, un nero che riesce ad andare scuola, grazie alla protezione del reggente Jongitaba, amico della sua famiglia, che diventa suo tutore dopo la morte del padre; ed è un nero che può persino studiare, conquistarsi un diploma e poi addirittura una laurea in giurisprudenza; lui che non è solo un miserabile "negro" in mano afrikaner.
La sua storia la racconta lui stesso nella autobiografia che ha per titolo "Lungo cammino verso la libertà” (Feltrinelli, 1997); un libro che è anch'esso una perigliosa conquista. Mandela lo scrive di nascosto nel 1974, mentre è detenuto nel carcere di Robben Island; ma il manoscritto viene scoperto, confiscato e distrutto. I suoi due compagni di cella ne hanno però trascritto e nascosto una copia; ed è così che quelle emozionanti 579 pagine sono giunte sino a noi. Uscito dalla prigione nel 1990, Mandela ne finisce la stesura e il libro viene pubblicato nel 1994, titolo inglese "Long walk to freedom".
Solo questo. «Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzandomi di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare».
Solo questo. Il lungo cammino. Nient'altro che la strenua lotta per riscattare il suo popolo da una vita «senza pietà, senza voce, senza radici, senza futuro».
A 18 anni, nel '39, Nelson è ammesso all'Università di Fort Hare; fa pratica legale presso lo studio di un avvocato ebreo; e alla Facoltà di Giurisprudenza - racconta - «sono l'unico studente africano», era visto come un intruso, nessuno si sedeva vicino a lui e i professori gli «consigliarono» di continuare gli studi «per corrispondenza». Nessuno gli aveva insegnato come battersi contro l'odioso dominio bianco. Ma è in quegli anni che diventa amico di comunisti, ebrei e indiani, tutti ragazzi della sua età che quel dominio bianco lo vogliono combattere. Insieme a loro, con Walter Sisulu e Oliver Tambo, fonda la Lega giovanile dell'ANC (African National Congress), l'organizzazione che, insieme al Partito comunista, si batte contro l'apartheid.
È con loro, coi ragazzi della Lega, che nel 1942 partecipa alla marcia dei 10.000 nella città di Alexandria (dove si è trasferito) organizzata per il boicottaggio degli autobus; non si fermerà più; la «miriade delle indegnità e delle offese» lo porta alla scelta che sarà quella di tutta la sua vita, quella di combattere «il sistema che imprigionava il suo popolo». Quel sistema che spara sui minatori in sciopero, come nel '46 avviene nella miniera d'oro di Reef, 12 morti, migliaia di arresti, centinaia di processi per sedizione ai tanti comunisti che a quella lotta hanno partecipato.
Nel febbraio 1952 l'ANC organizza una grande manifestazione di disobbedienza civile contro la segregazione, provocando la reazione del governo che, come sempre, è durissima. La sede dell'Anc è perquisita e Nelson arrestato per la prima volta. Quelli erano giorni, annota nel suo libro, nei quali era molto difficile per un nero vivere a Johannesburg. Infatti, «era un crimine passare per una porta riservata ai bianchi; un crimine viaggiare su un autobus riservato ai bianchi; un crimine bere ad una fontana riservata ai bianchi; un crimine passeggiare su una strada riservata ai bianchi, essere in strada dopo le 11 di sera, non avere il lasciapassare; era un crimine essere disoccupati e un crimine lavorare nel posto sbagliato, un crimine vivere in certi posti e un crimine non avere un posto dove vivere».
E sono, quelli, anche i giorni delle evacuazioni di massa a Sophiatown, Martindale, Newclarc, dove quasi 100.000 africani vengono brutalmente buttati fuori dalle loro case. A lui intanto, rilasciato dal carcere, viene consegnata un’ingiunzione che gli impone di dimettersi dall’ANC; di non uscire dal distretto di Johannesburg; e di non partecipare a riunioni o convegni di qualsiasi tipo per due anni. E contemporaneamente viene chiesta la sua radiazione dall'Albo degli avvocati.
Sono anche i giorni in cui Sophiatown, che ha cercato di ribellarsi all'evacuazione, deve cedere sotto i colpi della violenza afrikaner; e anche i giorni in cui, grazie al Bantu Educational Action, il governo si accaparrava direttamente il controllo di tutta l’istruzione, in pratica imponendo per gli africani una scuola di livello inferiore.
Sulle ali della lotta. La Carta delle Libertà nasce il 26 giugno 1955 in una straordinaria manifestazione promossa a Kiptown dal’ANC: «Noi, il popolo del Sudafrica». È un testo poetico e fortissimo, di denuncia e ribellione in nome dei diritti dell'uomo e della dignità, alla cui stesura collabora con slancio anche Mandela. Le inaudite parole sono state scritte. «Il Sudafrica appartiene a tutti coloro che ci vivono, bianchi e neri». «Il nostro popolo è stato defraudato dal diritto, acquisito alla nascita, alla terra, alla libertà e alla pace, da una forma di governo basata sulla ingiustizia e l'ineguaglianza». «Il popolo governerà». «Tutti saranno uguali davanti alla legge e tutti godranno degli stessi diritti dell'uomo».
Sulle ali della Carta. Arrivano le prime grandi manifestazioni di massa, e la repressione è durissima; cariche della polizia, denunce, arresti, sedi e movimenti dichiarati fuorilegge. E parte anche la caccia agli attivisti e agli animatori della Carta. Inevitabilmente tocca a Mandela.
All'alba del 5 dicembre '56 la polizia irrompe nella sua casa e lo arresta davanti ai due figli; l'accusa è alto tradimento; con lui, altri 156 compagni subiscono la stessa sorte, e tutti sono trasferiti nella prigione di Johannesburg, “La Fortezza”, una tetra costruzione in cima a una collina nel cuore della città.
Per “alto tradimento", la legge afrikaner prevede la pena di morte. Il 19 dicembre si apre il processo: ci vogliono due giorni per leggere le 18.000 parole dei capi d’accusa; ma, grazie a un grande collegio di difesa e ai fondi raccolti dall'ANC, quella volta - dopo un processo che si trascina per cinque anni - tutti vengono assolti e rilasciati su cauzione.
Non c'è pace né giustizia e nemmeno pietà. Il 10 marzo 1960 a Shaperville la polizia spara su un corteo di manifestanti disarmati; una strage. Il tragico episodio segna una svolta per l'ANC e anche per Mandela. Per cinquant'anni la non-violenza è stato uno dei principi basilari del movimento anti-apartheid. Ma ora, di fronte alla repressione sempre più brutale e sanguinosa, brandire la Carta e i suoi nobili principi, organizzare solo cortei di protesta sembra non bastare più; ora sembra giunto il momento di ricorrere anche a più drastici mezzi. Nasce il Mk - acronimo di "Umkhonto we Sizwe", che vuol dire "Lancia della Nazione" - l'ala armata dell'ANC e Mandela ne diventa il comandante. Sabotaggio, scontri con la polizia, contro-assalti, propaganda, raccolta
di fondi anche all'estero, campi di addestramento para-militari. Dicesi lotta.
Mandela è costretto a darsi alla clandestinità, diventa la "Primula Nera", l'africano più ricercato del continente. Dura diciassette mesi; ma una sera, sulla strada di Johannesburg - si sospetta su segnalazione della Cia - viene catturato. Processo, autodifesa, pesante condanna: cinque anni di durissimo carcere a Esiquitin, uno scoglio a 18 miglia da Città del Capo.
Passa solo qualche mese. Ma un'irruzione della polizia nella sede generale del Mk a Rivonia mette le mani su documenti che attesterebbero un piano di cospirazione, invasione armata, insurrezione; è un'ondata di arresti e per Mandela, già incarcerato, scattano nuove e più gravi accuse. Sono reati da pena di morte; e lui la morte se l'aspetta. Coi suoi compagni concorda una strategia di difesa: più che sulla legalità sarà basata sui «principi morali». Impiega quindici giorni a preparare il suo intervento davanti alla Corte. «Vostro Onore, io sono l'imputato numero uno Nelson Mandela. Non io, ma il governo dovrebbe trovarsi alla sbarra. Mi dichiaro non colpevole». Parlerà per oltre quattro ore. «Il mondo seguiva con grande attenzione il Processo Rivonia. Nella cattedrale di St.Paul a Londra si tennero veglie per noi; gli studenti dell'università di Londra mi elessero presidente in absentia della loro associazione». Venerdì 12 giugno 1964, «tornammo per l'ultima volta in tribunale. Il servizio di sicurezza era più imponente che mai», strade bloccate al traffico e polizia ovunque. Ma, «nonostante le intimidazioni, almeno duemila persone si erano radunate davanti al tribunale con striscioni e cartelli che dicevano: "Siamo al fianco dei nostri capi"».
Non furono condannati a morte (anche grazie alla grande pressione internazionale). La sentenza fu l'ergastolo per tutti gli imputati.
Agli anni del carcere, Mandela dedica un lungo capitolo intitolato: "Robben Island, gli anni bui". Anni terribili in un carcere spaventoso; la cella lunga 3 passi e larga meno di 2 metri, i pochi oggetti disponibili, la sporcizia, la quasi mancanza di corrispondenza, il vitto orribile, il lavoro massacrante nella cava di pietra.
Ma lui non cessa di combattere. È rinchiuso da più di vent'anni, ma in quell'anno 1985 perviene all'ANC il suo "Manifesto": «Unitevi! Mobilitatevi! Lottate! Tra l'incudine delle azioni di massa e il martello della lotta armata dobbiamo annientare l'apartheid!»
Mandela rimane in carcere fino all'11 febbraio 1990. Fu lo stesso nuovo presidente del Sudfrica a dargli la notizia della scarcerazione. Subito dopo essere stato eletto, de Klerk aveva cominciato a smantellare l’apartheid: apre le spiagge sudafricane ai cittadini di tutte le razze, annuncia l'abrogazione del "Reservation of Separation Amenities Part"; il 2 febbraio 1990 revoca la messa al bando dell’ANC, del Communist Part e di altre 317 organizzazioni che erano state dichiarate illegali; decreta la scarcerazione di tutti i prigionieri politici non colpevoli di atti di violenza, nonché l'abrogazione della pena capitale.
Il 27 aprile 1994 è la data delle prime elezioni non razziali e a suffragio universale del Paese. Mandela diventa presidente: è il primo presidente nero del Sudafrica. Resterà in carica fino al 1999. Le ferite sono profonde e laceranti. Ma il presidente nero non insegue la ritorsione e la vendetta. In nome di quel suo popolo che ha tanto sofferto, ha creato una "Commissione per la Verità e la Riconciliazione" per far luce sui crimini dell'Apartheid; i colpevoli che confessano sono perdonati, ed è concessa un'amnistia pacificatrice. Per questo, dopo il Premio Lenin ricevuto nel 1962, nel 1993 gli viene dato il Nobel per la pace.
Tanti anni sono passati. Il Combattente ora è un po' stanco. «Mi sono fermato un istante per riposare, per svolgere lo sguardo allo splendido panorama che mi circonda, e per guardare la strada che ho percorso».
Nell'ultima riga della sua autobiografia ha lasciato scritto che il «lungo cammino» deve continuare. «Non vi è alcuna strada facile per la libertà».
Maria R. Calderoni

mercoledì 27 novembre 2013

CONFERENZA SUL TEMA: L'UOMO NATURALMENTE! UNA RIFLESSIONE FILOSOFICA SUL RAPPORTO UOMO-NATURA

GIOVEDI 5 DICEMBRE 2013 - ORE 20.30

PRESSO LA SALA LAMA DELLA CAMERA DEL LAVORO DI DARFO B.T.
VIA SALETTI 14

IL CIRCOLO CULTURALE FILIPPO BUONARROTI IN COLLABORAZIONE CON LA 
CGIL DI VALLECAMONICA 
ORGANIZZA UNA SERATA DI APPROFONDIMENTO 
SUL RAPPORTO UOMO - NATURA

INTERVERRANNO:
PER IL CIRCOLO BUONARROTI GIOVANNI BONASSI E AUGUSTO MARTELLUCCI
PER LA CGIL VALLECAMONICA IL SEGRETARIO GENERALE DANIELE GAZZOLI

E' UNA SERATA MOLTO INTERESSANTE E DI RIFLESSIONE "ALTA" CHE CI INTERROGA SULLA QUALITA' DELLA NOSTRA VITA E DELL'AMBIENTE CHE CI CIRCONDA!

PER QUESTE RAGIONI, NON MANCATE!

VI ASPETTIAMO NUMEROSI

giovedì 21 novembre 2013

Il grande affare dei disastri




Il grande affare dei disastri

di Tonino Perna – il manifesto
Nel periodo 1901-1951 si sono registrate in Italia sei alluvioni, di cui le più disastrose nel 1951, Polesine e Calabria, con 184 vittime. Nel periodo 1998-2008, a partire dalla tragedia della Val di Sarno (159 vittime), si erano registrate sette alluvioni devastanti. Negli ultimi, soli, quattro anni abbiamo avuto nove alluvioni disastrose generate da piogge intense e «bombe d’acqua».
Prima Giampilieri (Messina), poi il Veneto e le Marche, Genova e le Cinque Terre, la Lumigiana e il Vibonese, Barcellona (Me) e Massa Carrara, Taranto e ora la Sardegna: in quattro anni un susseguirsi di disastri, con morti e feriti, a cui segue il solito rito politico. Ci sono quelli che in malafede denunciano l’eccezionalità dell’evento naturale e piangono sui morti, feriti e dispersi. Gli altri denunciano la scarsa cura del territorio, la speculazione edilizia, il mancato preallarme della Protezione Civile. Dopo un paio di giorni, di accesi dibattiti e talk show televisivi, la vita politica e mediatica si riprende il suo spazio. La questione ambientale, i rischi a cui siamo esposti, la prevenzione di cui tutti parlano ma nessuno la fa, scompaiono dall’orizzonte. C’è la crisi, i tagli lineari e non, la decadenza del Cavaliere, il Nuovo Centro Destra e le primarie del Pd, e poi ancora le Province che si aboliscono e cambiano nome, le contro-Riforme che vengono annunciate, Bruxelles che ci boccia e ci chiede di fare gli esami di riparazione, e via dicendo. Fino alla prossima alluvione, alla prossima bomba d’acqua, che metterà in ginocchio un altro pezzo dell’ex Bel Paese. C’è qualcosa di profondo che non va e di cui bisognerebbe prendere coscienza.
Da trent’anni si discute del rischio idrogeologico nel nostro paese, ma le istituzioni non fanno niente per prevenirlo. Eppure le risorse economiche ci sarebbero, ma non vengono spese come ricordava ieri il ministro Carlo Trigilia. Tanti hanno scritto che prevenire costerebbe molto meno che ricostruire e riparare i danni post-catastrofe.
Giusto, ma solo in una visione ideale, che non tiene conto del tasso di profitto e dell’incentivo a investire. La prevenzione richiederebbe interventi capillari sul territorio, opere di ingegneria naturalistica e una pluralità di tecnici, piccole e medie imprese specializzate, operai idraulico-forestali che finalmente verrebbero utilizzati per la funzione per cui sono stati assunti. Un meccanismo molto complesso e poco conveniente per chi gestisce il territorio (a cominciare dalle Regioni). Invece, l’intervento post-catastrofe è un affare dal punto di vista economico e politico, fa girare molti più soldi, più tangenti, più extraprofitti, allarga le reti clientelari della classe politica locale e nazionale. La dichiarazione dello «stato di emergenza» è un grande business. Un esempio per tutti: il terremoto dell’Aquila. Chi non ricorda le risate notturne dei due imprenditori appena appresa la notizia della catastrofe? Ma, pochi sanno che, grazie al terremoto, nel triennio 2010-2013 l’Abruzzo è la sola regione italiana in cui sono aumentati fatturato e occupazione nell’edilizia, che sono letteralmente crollati nel resto d’Italia. D’altra parte, lo stesso meccanismo vale per altri disastri che si ripetono, d’estate, ogni anno: gli incendi.
Chi scrive dopo aver sperimentato con successo un metodo semplice, basato sul coinvolgimento delle associazioni ambientaliste e cooperative sociali, un metodo preso in considerazione anche a Bruxelles, ha visto prevalere l’uso dell’affitto di elicotteri da parte delle Regioni. Anziché prevenire a terra con sistemi capillari d’intervento, si è preferito affidare ai privati la gestione dall’alto della lotta agli incendi, con elicotteri che costano 3.500 euro l’ora. La Sma spa è, tra gli altri, una società che ha stipulato contratti milionari con diverse regioni meridionali. Complimenti.
Se queste sono le coordinate economico-politiche dentro le quali ci hanno costretto a vivere da diversi decenni, oggi la situazione si è ulteriormente complicata per via dei cambiamenti climatici. Siamo entrati nell’era degli «eventi estremi» meteorologici con cui dobbiamo fare i conti. Che cosa significa? Significa che quelli che un tempo potevano essere classificati come «eventi eccezionali» stanno diventano sempre più frequenti ed intensi. Vale a dire che uragani, tifoni, cicloni, bombe d’acqua, trombe d’aria, stanno crescendo, in tutto il mondo, come è testimoniato da una vasta letteratura scientifica. Questo perché l’ecosistema è entrato in una fase di fibrillazione, in una fase di «oscillazioni giganti» come le definiva il Nobel Prigogine, che caratterizzano un sistema di fluidi quando si entra in una fase di «squilibrio permanente». Nel caso del clima questo squilibrio è stato causato, senza ormai alcun dubbio, dalla straordinaria accelerazione nella produzione di CO2 , che dalla metà del secolo scorso è cresciuta in maniera iperbolica. Anche se improvvisamente riducessimo della 20/30 per cento la produzione di gas serra (assolutamente auspicabile quanto improbabile) nel medio-lungo periodo dovremmo comunque convivere con gli «eventi estremi», che diventeranno sempre più disastrosi nella misura in cui continueremo, ai ritmi attuali, a immettere CO2 nell’atmosfera.
Vivere nell’era degli «eventi estremi» significa ripensare il nostro modo di costruire, di canalizzare le acque, di gestire i fiumi e le fiumare, le coste, e naturalmente i sistemi urbani. Quando si parla di dissesto idrogeologico spesso ci si dimentica del dissesto urbano e si pensa solo a colline e montagne. Le nostre città, nessuna esclusa, non sono oggi in grado di reggere 400 mm di pioggia in ventiquattro ore, come è accaduto a Olbia. Se fosse successo in una grande città i morti sarebbero stati centinaia, i danni si sarebbero contati in miliardi di euro.
Abbiamo pertanto bisogno di elaborare e implementare un piano di sicurezza territoriale all’altezza della sfida che il cambiamento climatico ci impone. Sicurezza è una categoria che è stata finora usata nei confronti della microcriminalità, dell’arrivo dei migranti, delle minacce del terrorismo. Il paese leader nelle politiche di sicurezza sono gli Usa dove negli ultimi decenni governo e sindaci delle metropoli, in nome della «sicurezza nazionale e locale», si sono impegnati nella repressione della microcriminalità, dei migranti, del terrorismo. Peccato che non si siano accorti che tifoni, cicloni e uragani, crescono in frequenza e intensità ogni anno che passa e stanno distruggendo vaste aree in tutti gli States, dove si continuano a costruire casette unifamiliari in legno e malta, che vengono letteralmente spazzati via.
Dobbiamo, pertanto, recuperare politicamente la categoria della «sicurezza», finora regalata alla destra in tutto il mondo occidentale. Sicurezza dei territori non solo di fronte agli «eventi estremi», ma anche come opera di risanamento dei terreni inquinati (Campania docet), delle acque malsane, dell’aria che è diventata irrespirabile in tante città. Non lo possiamo fare da soli, abbiamo bisogno di una grande alleanza a livello europeo per cambiare gli orizzonti della politica di austerity di breve respiro. Lo dobbiamo fare insieme a tutte quelle forze sociali e politiche che nella Ue si battono per un altro modo di produzione, per un altro modello sociale, per una vera qualità della vita come obiettivo prioritario. È la più grande sfida del nostro tempo.

mercoledì 20 novembre 2013

Cancellieri: va in scena l'ennesimo capitombolo del Pd

POLITICA

Cancellieri: va in scena l'ennesimo capitombolo del Pd

Letta ha ieri sera aperto l'assemblea dei parlamentari democrat drammatizzando il caso Cancellieri: "Votare la sfiducia al ministro - ha detto - significa fare il gioco del M5S e, soprattutto, sfiduciare, insieme al guardasigilli, l'intero governo". In sostanza, il presidente del Consiglio ha preso in ostaggio gli interi gruppi parlamentari del suo partito, dicendo chiaro e tondo che il tema posto è la continuità dell'esecutivo da lui presieduto. Su quello si vota. "So che la pensiamo diversamente - ha aggiunto Letta - ma vi chiedo un atto di responsabilità come comunità (sic!, ndr) perché l'unità del Pd è l'unico punto di tenuta del sistema politico italiano". Il merito, vale a dire la gravissima compromissione di Annamaria Cancellieri con i Ligresti, le circostanze che hanno via via aggravato la sua posizione, la plateale incompatibilità con il ruolo ricoperto dal ministro, Per Letta non contano assolutamente nulla. Tutti mugugnano, molti recalcitrano, ma alla fine abbozzano. Ora andrà in scena il gioco delle parti, con interventi in aula nei quali i diversi tronconi del Pd lasceranno agli atti della discussione il proprio dissenso o i propri distinguo. Ma poi si adegueranno alla disciplina di partito imposta loro da Letta, mallevadore Giorgio Napolitano. Una follia autolesionista che fa periclitare non soltanto il Pd, ma la democrazia e la moralità pubblica, violentata dalla ragion di Stato ed estranea ad ogni senso di verità e di giustizia.
Nonostante ciò, dal Pd continuano ad arrivare ugualmente le spinte per le dimissioni del ministro. E Paolo Gentiloni fa sapere di aver chiesto direttamente a Letta - assieme a Gianni Cuperlo, Pippo Civati e a Michela Marzano - di adoperarsi nei prossimi giorni affinché la Cancellieri si dimetta da sé. Figuriamoci...Prima dell'avvio dei lavori in aula, comunque, il Guardasigilli ha avuto un colloquio con il premier Letta e con il ministro dei Rapporti con il parlamento, Dario Franceschini. Acqua fresca, ipocritamente agitata, nello stagno doroteo in cui è impantanato il Pd, nel tantativo di qualche pezzo della nomenclatura di salvarsi la coscienza. Intanto Cancellieri, che di dimettersi non ha la minima intenzione,  continuerà a fare il ministro della Giustizia.
Alle 10.30 è iniziata la discussione generale, quindi prenderà la parola il Guardasigilli. Seguiranno le dichiarazioni di voto e infine, intorno alle 15, è previsto il voto della Camera sulla mozione di sfiducia.
D.G.
in data:20/11/2013

lunedì 18 novembre 2013

PUNTI DI VISTA.....di Marco Travaglio (Il Fatto Quotidiano)

Svendola

Ci sono tanti modi per finire una carriera politica. Quello che la sorte ha riservato a Nichi Vendola è uno dei peggiori, proprio perché Nichi Vendola non era tra i politici peggiori. Aveva iniziato bene, con un impegno sincero contro le mafie e l’illegalità. Aveva pagato dei prezzi, ancor più cari di quelli che si pagano di solito mettendosi contro certi poteri, perché faceva politica da gay dichiarato in un paese sostanzialmente omofobo e da uomo di estrema sinistra in una regione sostanzialmente di destra. Ancora nel 2005, quando vinse per la prima volta le primarie del centrosinistra e poi le elezioni regionali in Puglia, attirava vastissimi consensi e altrettanti entusiasmi e speranze. E forse li meritava davvero.
Poi però è accaduto qualcosa: forse il potere gli ha dato alla testa, forse la coda di paglia dell’ex giovane comunista ha avuto il sopravvento, o forse quel delirio di onnipotenza che talvolta obnubila le menti degli onesti l’ha portato a pensare che ogni compromesso al ribasso gli fosse lecito, perché lui era Nichi Vendola. S’è messo al fianco, come assessore alla Sanità (il più importante di ogni giunta regionale) un personaggio in palese e quasi dichiarato conflitto d’interessi, come Alberto Tedesco. S’è lasciato imporre come vicepresidente un dalemiano come Alberto Frisullo, poi finito nella Bicamerale del sesso di Gianpi Tarantini, a mezzadria con Berlusconi. Ha appaltato al gruppo Marcegaglia l’intero ciclo dei rifiuti, gratificato da imbarazzanti elogi del Sole 24 Ore quando la signora Emma ne era l’editore. (…)
Ha stretto un patto col diavolo del San Raffaele, il famigerato e non compianto don Luigi Verzé, consegnandogli le chiavi di un nuovo ospedale a Taranto da centinaia di milioni. E si è genuflesso dinanzi al potere sconfinato della famiglia Riva, chiudendo un occhio o forse tutti e due sulle stragi dell’Ilva. Il fatto che, come ripete con troppa enfasi, non abbia mai preso un soldo dai Riva (…), non è un’attenuante, anzi un’aggravante. Non c’è una sola ragione plausibile che giustifichi il rapporto di complicità “pappa e ciccia” che emerge dalla telefonata pubblicata sul sito del Fatto fra lui e lo spicciafaccende-tuttofare dei Riva: quell’Archinà che tutti sapevano essere un grande corruttore di politici, giornalisti, funzionari, persino prelati. Un signore che non si faceva scrupoli di mettere le mani addosso ai pochi giornalisti non asserviti.
In quella telefonata gratuitamente volgare, fatta dal governatore per complimentarsi ridacchiando con il faccendiere della bravata contro il cronista importuno, non c’è nulla di istituzionale: nemmeno nel senso più deteriore del termine, nel più vieto luogo comune del politico scafato che deve tener conto dei poteri forti e delle esigenze occupazionali. C’è solo un rapporto ancillare e servile fra l’ex rivoluzionario che si è finalmente seduto a tavola e il potente che a tavola ha sempre seduto e spadroneggia nel vuoto della politica e dei controlli indipendenti, addomesticati a suon di mazzette.
(…) La telefonata con Archinà è peggio di qualunque avviso di garanzia, persino di un’eventuale condanna. Perché offende centinaia di migliaia di elettori che ci avevano creduto, migliaia di vittime dell’Ilva e i pochi politici che hanno pagato prezzi altissimi per combattere quel potere malavitoso. Perché cancella quello che di buono (capirai, in otto anni) è stato fatto in Puglia. Perché diffonde il qualunquismo del “sono tutti uguali”. Perché smaschera la doppia faccia di Nichi. Perché chi ha due facce non ce l’ha più, una faccia.
Marco Travaglio, il fatto Quotidiano, 16 novembre 2013
in data:16/11/2013

venerdì 15 novembre 2013

INTERVISTA AL SEGRETARIO PAOLO FERRERO

Il manifesto, intervista a Ferrero: «E ora autonomi quindi credibili»

di Daniela Prezioni – il manifesto – «Il governo Letta è il secondo tempo di Monti. Una controrivoluzione, una Costituente come nel 45, ma stavolta antidemocratica e neoliberista». Paolo Ferrero e il Prc a congresso: non ripeteremo gli stessi errori, fin qui tutti i fallimenti vengono dal rapporto con il centrosinistra. Cambio del segretario? «Decide il congresso»
«Il governo Letta è il secondo tempo della partita. Sul piano economico e sociale le operazioni pesanti le ha fatte Monti: ha usato la paura per sfondare diritti del lavoro, pensioni, welfare. Letta prosegue e fa leva sulla rassicurazione per azioni di sfondamento sul piano costituzionale. La sua parte è demolire la Carta e introdurre il presidenzialismo». Anche il Prc di Paolo Ferrero affronta, come altri a sinistra, un congresso (dal 6 all’8 dicembre a Perugia). Che segna, nelle intenzioni, una svolta.
Cosa intende per ‘azioni di sfondamento sul piano istituzionale’?
Letta sta modificando l’art. 138, e si darà il tempo di cambiare la Carta. La maggioranza troverà la quadra sul presidenzialismo, che chiamerà semipresidenzialismo. Con il bipolarismo hanno demolito la partecipazione, con il presidenzialismo gestiranno in forme plebiscitarie la crisi della politica.
Parte del Pd è contro il presidenzialismo.
Le larghe intese stanno ridisegnando l’Italia sul piano economico-sociale, dalla spending review al fiscal compact al pareggio del bilancio. Sono una Costituente, come quella del ’45. Solo che quella era democratica e progressista, questa è antidemocratica e neoliberista. Se chiudono la partita sulla Carta, il progetto della P2 è realizzato. L’hanno fatto tutti insieme. Del resto è difficile dire se le proposte sociali di Renzi sono a destra o a sinistra di Berlusconi. Penso ai minijob: la distruzione dell’idea che il lavoro abbia dei diritti. Come in Europa, in Grecia, in Germania, la grande coalizione è la forma di governo nella crisi per avere il consenso per fare porcherie che da solo nessuno potrebbe.
Il piano della P2. Come dice Grillo?
Sì, ma io lo dico da prima.
Renzi, Cuperlo e anche Letta giurano che le larghe intese non si ripeteranno più.
Possibile: una volta che avranno sfondato, riprenderanno il teatro nella forma del presidenzialismo. Renzi o Marina Berlusconi: lo scontro sarà anche feroce, ma le differenze sono insignificanti. Sono diversi sui diritti civili, ma pressoché uguali sulle questioni sociali ed economiche. Hanno sfasciato il frutto della lotta partigiana. Una vera controrivoluzione. E il lavoro sarà nella merda.
Si spieghi.
Questo quadro prevede la disoccupazione e la precarizzazione di massa, la riduzione dei salari e la privatizzazione del welfare.
Contro la ‘controrivoluzione’ lei propone una ‘Syriza italiana’. Ci avete già provato con la Federazione della sinistra e Rivoluzione civile. Non ha funzionato. È diversa?
Propongo un polo di sinistra autonomo e alternativo dal centrosinistra. Molte delle forze di Rivoluzione civile si sono trovate fuori dall’alleanza non per loro scelta. E questo ha pesato. I nostri interlocutori oggi sono, per capirci, l’arco di forze e di pratiche che va dal corteo del 12 ottobre, la “Via maestra”, a quello del 19 sul diritto all’abitare. Propongo una testa un voto: nessun percorso con accordi di vertice, come è stata Rivoluzione civile e la Federazione, due fallimenti. Le europee sono l’occasione di una nuova Internazionale sociale. L’Europa è un terreno chiaro: in alternativa ai socialdemocratici e ai popolari c’è la candidatura a presidente della Commissione di Alexis Tsipras (leader della greca Syriza, ndr).
Niente liste Prc anche alle europee?
Il punto è far partire il processo. Come si chiamerà viene dopo.
Proponete di uscire dall’euro?
Nel Prc c’è chi lo propone. Io propongo la disobbedienza ai trattati.
A congresso un pezzo del Prc chiederà di riaprire il dialogo anche con Sel.
È un punto di differenza, anzi è un’altra linea politica. Per noi bisogna costruire la sinistra fuori dal centrosinistra. Loro invece non propongono l’entrata nel centrosinistra, non dico questo, ma antepongono l’unità a sinistra alla sua collocazione. È un errore. Ci abbiamo già provato, è sempre andata male. È successo con la Federazione: il Pdci voleva aggregarsi al Pd, e ci siamo spaccati. Di più: tutte le scissioni del Prc sono avvenute su questo punto. Si può sbagliare, anch’io ho sbagliato: ma non si può ripetere sempre lo stesso errore.
Vuol dire che la prossima Rifondazione sarà definitivamente selezionata fra quelli che dicono no al centrosinistra?
No, voglio dire che se la proposta di questi compagni si realizzasse torneremmo nelle condizioni della Fds: un disastro. Aggiungo che Sel non mi sembra interessata. Ma non dico che non discuteremo mai più con il Pd. Syriza sfida il Pasok, e anch’io se avessi il 20% e il Pd il 10, sfiderei il Pd. Ma ora non vado a fare il suo tappetino.
Il 20% invece in Italia ce l’ha Grillo.
Grillo inizia a mostrare le sue debolezze. Non è interessato ad essere motore dei movimenti. E evidenzia le contraddizioni sulle proposte per uscire dalla crisi, dove mischia ricette di destra e sinistra. Oggi è un parcheggio di voti. Ma resterà al 20 se non ci sarà una sinistra credibile. E alternativa.
Quindi il Pdci è fuori?
No, purché sia chiaro sul rapporto col Pd.
Il Pd è il vostro spartiacque. Messa così non vi precludete il dialogo con quel vasto popolo di sinistra che oggi vota Pd?
La comunicazione con quel popolo avverrà sui contenuti. Il lavoro è il problema del paese, e il nostro piano per un milione di posti – manutenzione dell’ambiente, del patrimonio artistico e tanto altro – non sarà solo una raccolta di firme ma l’occasione di definire una nuova sinistra. Faremo sul lavoro quello che fanno Paolo Di Vetta (dell’Usb, ndr) e gli altri sul tema della casa. Non si lamentano, praticano soluzioni, occupano.
Non teme una Rifondazione minoritaria?
Rifondazione è piccola. Ma le nostre idee sono maggioritarie.
Perché allora avete pochi voti?
Abbiamo un problema di credibilità. Usciamo da una sconfitta e non basta cambiare posizione politiche. Bisogna ripartire.
Qual è l’errore più grave che si addebita?
Il governo con Prodi. Credevamo di poter cambiare l’indirizzo politico. Non a caso i partiti della sinistra europea, tutti in crescita, non hanno avuto esperienze di governo.
È vero anche che nessuno di quei partiti ha sul curriculum la rottura del primo governo di centrosinistra del paese.
La vicenda del ’98 l’avevamo superata nel 2001, con il movimento di Genova. Poi, con la scelta del governo, abbiamo chiuso le possibilità a quel movimento e piallato la nostra credibilità. Ma non è stato un errore solo nostro. Nelle nostre liste c’erano molti dei centri sociali e della sinistra sociale.
Insomma, la fase del ‘bertinottismo’ di governo è stata un errore.
La mia è un’autocritica. Io ho fatto persino il ministro. Ero considerato il rompipalle, ma oggi l’immagine resta quella.
Questo non pone il tema di un ricambio del leader? Il giovane Tsipras ha svecchiato anche l’immagine della sinistra greca.
Invece Mélanchon, leader del francese Front de gauche, è stato ministro di Jospin. Ho messo la faccia nelle scelte buone, come l’elezione di Pisapia, Orlando e De Magistris, e in quelle cattive. Un dirigente comunista, consapevole che si perde fino a che non si vince, deve innanzitutto capire per correggere. Ci sono compagni e compagne che chiedono un ricambio a partire da me. Contrasto la tesi del capro espiatorio, ed è un successo che nonostante tutto non siamo diventati una setta né una dépendence del migliore offerente. Fare il segretario non è il mio primo problema. Vedremo. deciderà il congresso. Proporrò la gestione unitaria del partito. E il referendum fra gli iscritti su ogni questione importante.

Enrico Letta, il coniglio mannaro


Dopo la luce in fondo al tunnel che Monti ci aveva segnalato senza ottenere molto ascolto, Enrico Letta continua giornalmente a spargere segnali di rassicurazione riguardo al futuro del Paese. La migliore degli ultimi giorni è l’affermazione secondo cui la ripresa è a portata di mano, “anche se i segnali ancora non si vedono”. Il punto è che la ripresa non c’è e sono proprio le politiche fatte sotto dettatura della Merkel da Tremonti, Monti e Letta a impedirla. La compressione della domanda interna prodotta attraverso i tagli della spesa pubblica e l’aumento della disoccupazione e della precarietà, ha prodotto in Italia una vera e propria deflazione.
Non a caso i consumi continuano a calare e l’inflazione non è mai stata così bassa. La stessa riduzione dei tassi d’interesse da parte della Bce non produrrà effetti in Italia per due ragioni: i tassi di interesse che applicano le banche sono altissimi e non hanno più alcun rapporto con il tasso di interesse ufficiale deciso dalla Bce. I tassi di interesse reale quindi non scenderanno. In secondo luogo l’origine di fondo della crisi italiana è provocata proprio dalla caduta dei consumi interni e quindi o si risollevano quelli – con una forte redistribuzione del reddito dall’alto in basso e per questo proponiamo la patrimoniale sulle grandi ricchezze – oppure l’economia non riparte.
La seconda considerazione è che se anche nel prossimo anno il Pil dovesse crescere di qualche decimale di punto, questo non interromperebbe per nulla la crescita della disoccupazione, per il semplice motivo che gli aumenti di produttività delle imprese che dentro la crisi si sono ristrutturate, sono maggiori della possibile lieve crescita. In questo contesto parlare di uscita dalla crisi è quindi una evidente menzogna, una bugia di cui Letta è certamente consapevole. La questione da porsi riguarda allora il perché Letta sparga questi messaggi mielosi e rassicuranti? Salta agli occhi la differenza con il governo Monti che invece faceva del terrore – seminato a piene mani nel corso del suo governo – il suo principale codice comunicativo.
La mia opinione è che questa differenza di atteggiamento e di comunicazione non avvenga per un diverso disegno politico di Letta rispetto a Monti, ma perché Letta sta gestendo il secondo tempo della partita cominciata da Monti. Più precisamente, io penso che Monti ha volutamente spaventato il popolo italiano e ha utilizzato il terrore seminato nelle “fila avversarie” al fine di giustificare tagli draconiani al welfare e porcherie enormi come la manomissione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e l’allungamento infinito dell’età per andare in pensione. Monti ha fatto una applicazione da manuale di quella che Naomi Klein chiama “Shock economy”, il cui primo esperimentatore è stato il golpista Augusto Pinochet, il dittatore cileno. Attraverso il terrore e la benedizione dell’Unione Europea, Monti ha fatto passare provvedimenti che altrimenti non sarebbero mai potuti passare.
Oggi Letta ha un altro compito. Non più tagliare brutalmente – il grosso dei tagli è stato fatto da Monti - ma piuttosto di convincere gli italiani che i tagli sono serviti: abbiamo fatto i sacrifici, ma adesso ci sarà la ripresa. Il primo obiettivo è quindi consolatorio e risarcitorio, fatto con la consueta maestria democristiana. Il secondo obiettivo, più di fondo, è che Letta ha due grandi opere da realizzare per terminare l’azione devastatrice di Monti. La prima è la privatizzazione di tutto quanto è rimasto di pubblico in Italia e la seconda è lo scardinamento della Costituzione italiana, trasformando l’Italia da repubblica parlamentare in una repubblica presidenziale. La rassicurazione lettiana è quindi finalizzata a distogliere il paese dalla gravità degli attacchi che il suo governo sta portando alla democrazia costituzionale ed economica.
Da questo punto di vista il quadro diventa chiaro: Monti ha seminato il terrore per scardinare le conquiste sociali e Letta usa la rassicurazione per far tirare un sospiro di sollievo al paese e poter fare in santa pace la distruzione della Costituzione nata dalla resistenza e svendere i gioielli di famiglia tra cui la parte rimanente di apparato industriale pubblico. Monti e Letta, il terrore e la rassicurazione, sono le due facce della stessa medaglia: la distruzione di quanto di buono era stato fatto in Italia dopo la seconda guerra mondiale in termini di democrazia, diritti sociali e del lavoro, presenza pubblica nell’economia. Letta non meno di Monti – così come i partiti che li appoggiano – sono i protagonisti di una vera e propria restaurazione neoliberista, di un peggioramento strutturale delle condizioni di vita del popolo italiano e della svendita dell’Italia ai poteri forti – economici e finanziari – europei e mondiali. Contro questa vera e propria guerra scatenata contro il popolo italiano occorre ribellarsi.
Paolo Ferrero