mercoledì 24 luglio 2013

Da Gezi Park alla Valle Susa - di Giorgio Cremaschi

POLITICA

Da Gezi Park alla Valle Susa

Tutta la grande informazione ha seguito con trepidazione e simpatia la mobilitazione popolare in Turchia. Quel grande movimento democratico è esploso attorno alla protesta di centinaia di giovani che volevano impedire l'abbattimento di alcuni alberi in Gezi Park, un parco di Istambul destinato ad essere cancellato per far posto a qualche grande opera.
In Valle Susa sinora sono stati abbattuti oltre 5000 alberi, molti secolari, in uno scempio di cui ho personalmente potuto rendermi conto prima che tutta quell'area venisse chiusa al mondo diventando così una zona rossa, un'altro di quei buchi neri che da Genova in poi ingoiano la nostra democrazia.
Contro quella devastazione e contro l'opera che la ispira ancora una volta si sono mobilitati i militanti del movimento Notav, cercando giustamente di provare a fermarle, come i giovani turchi di Gezi Park. Ma nella grande informazione sono apparsi subito come violenti, fiancheggiatori del terrorismo, nemici del bene comune.
Contro quella mobilitazione si sono scatenate azioni che ricordano quelle alla Diaz a Genova. A Torino è in corso un procedimento giudiziario nei confronti di decine di attivisti costruito come se gli imputati fossero mafiosi o terroristi.
Leggi e regole speciali, l'occupazione militare del territorio si applicano sempre più spesso in una Valle dove il consenso popolare alla lotta contro la Tav non è mai, mai venuto meno. Ma il rifiuto persistente e generalizzato dell'opera non provoca assolutamente una riflessione, un ripensamento nel palazzo e nella informazione di regime.
Le ragioni di mercato dell'opera non esistono oramai nemmeno negli imbrogli più sfacciati. La Francia sta liquidando la sua parte di opera inutile, i convogli delle merci, diradati e ridotti per la crisi, passano altrove. Il buco in Valle Susa è un devastante e costosissimo percorso verso il nulla, ma bisogna farlo comunque. Come con gli F 35, bisogna spendere a vuoto decine di miliardi perché così si è deciso, punto e basta.
Bisogna farlo perché il potere deve dimostrare la sua forza di fronte a chi lo contesta. Non si cede alla piazza. Non si può ammettere che i Notav abbiano ragione, sarebbe un precedente pericolosissimo che potrebbe dar luogo ad un contagio democratico tra tutte e tutti coloro che oggi non ne possono più. La democrazia è diventata un bene di esportazione, non è che dobbiamo averla anche noi qui.
E così si continuano ad abbattere alberi e diritti, a sprecare montagne di soldi perché indietro non si può tornare, tutto il palazzo ci perderebbe la faccia.
Se qualcuno vuole comprendere perché il Partito Democratico sia diventato artefice della distruzione dei valori della sinistra in questo paese e con quali affinità governi oggi con Berlusconi, vada in Valle Susa, parli con quei pericolosi terroristi che sono i NoTav e capirà tutto.
Torniamo tutti in Valle alla marcia popolare sabato prossimo. E cominciamo a far sì che quei luoghi diventino il Gezi Park del popolo italiano.
Giorgio Cremaschi
in data:24/07/2013

giovedì 18 luglio 2013

L'EDITORIALE DI DINO GRECO

Il Pd decide di salvare Alfano… e distruggere se stesso

Per l’ennesima volta – e questa potrebbe essere fatale – i democratici capitombolano ai piedi del Pdl e si apprestano a votare contro la sfiducia ad Angelino Alfano, benché egli sia manifestamente coinvolto nell’affare Shalabayeva.  E’ questa la decisione sortita dalla segreteria del Pd, che ha architettato una linea trasudante ipocrisia e cattiva coscienza: la non-sfiducia al vice-premier verrebbe (si fa per dire) controbilanciata dalla richiesta che egli “faccia un passo indietro”, in sostanza che si dimetta con atto unilaterale. Dunque, da un lato il Pd riconosce la responsabilità, non si sa se soggettiva o oggettiva, di Alfano, dall’altro non ne trae le conseguenze ed affida pilatescamente ad Alfano medesimo – che ha ripetutamente mentito e che di dimettersi non ha alcuna intenzione – la prerogativa di decidere cosa fare. Quindi lui, e insieme a lui tutto il Pdl, tirerà dritto, politicamente coperto com’è anche da Enrico Letta il quale pur di tenere in vita il governo da lui presieduto è disposto a tollerare, e perciò a condividere, qualsiasi misfatto.
Quella del Pd è in definitiva una resa senza condizioni, grave e clamorosa, ancorché prevedibile, almeno da parte di chi abbia seguito con attenzione critica il progressivo perdersi di questo partito. Una resa destinata ad aprire fratture forse insanabili nel gruppo dirigente, soprattutto in quello allargato, e voragini di consenso nell’elettorato più esigente.
La botte ruzzola veloce verso valle e a questo punto torna, inquietante, l’interrogativo su ciò che il Pd farà quando e se, il 30 luglio, la Corte di Cassazione dovesse confermare l’esito dei precedenti gradi di giudizio del processo Mediaset e rendere definitiva la condanna di Berlusconi all’interdizione dai pubblici uffici. Se il Senato, con il voto determinante dei Democratici, dovesse neutralizzare gli effetti di quella sentenza, il Paese precipiterebbe in un conflitto fra poteri e in una crisi democratica senza precedenti, dove tutto, davvero tutto, diventerebbe possibile.
Mentre la politica dà questa oscena prova di sé, apprendiamo dell’arresto di Salvatore Ligresti (e dell’intera sua famiglia), l’uomo che giunse al vertice del “salotto buono” del capitalismo italiano (“colà dove si puote ciò che si vuole…”) con l’accusa di falso in bilancio e manipolazione del mercato. In realtà è la crem de la crem del potere economico e finanziario a mostrare il guasto profondo che innerva i rapporti sociali nel nostro Paese. Fate mente locale: Fondiaria, Monte dei Paschi, Eni, Finmeccanica, Pirelli, Fiat (vale a dire il gotha dell’industria e della finanza nazionale) incrociano sistematicamente con la giustizia. Si squaderna così davanti al Paese quel “sovversivismo delle classi dominanti” che costituisce un filo nero che attraversa la storia d’Italia e che sta trascinando il Belpaese al fallimento sociale, politico e democratico.
La politica - attraverso gli schieramenti che oggi solidalmente siedono in plancia di comando e dove “una mano lava l’altra” - si abbevera a quella fonte corrotta e malata.
Nessuna sorpresa che le cose siano giunte sino a questo punto.

Dino Greco
in data:18/07/2013

mercoledì 3 luglio 2013

L'EDITORIALE DI EMILIANO BRANCACCIO

Brancaccio: “L’euro è un morto che cammina, exit strategy da sinistra”

Brancaccio: “L’euro è un morto che cammina, exit strategy da sinistra”

da Keynesblog.it -
Il signor euro aveva più volte rischiato l’infarto. Il dottor Draghi decise allora di metterlo in coma farmacologico. Sulla cura però indugiava, e a intervalli periodici il dilemma amletico gli si ripresentava: lasciarlo dormire o farlo morire? Draghi insisteva per la prima soluzione. Ma ad un tratto il popolo italiano ha improvvisamente optato per la seconda: ormai l’euro è solo uno zombie, un morto che cammina. Volenti o nolenti, prendiamone atto.
Vedrete che nel Direttorio della Bce l’avranno già capito. A Francoforte si accingeranno a modificare la “regola di solvibilità” della politica monetaria: il famigerato ombrello europeo contro la speculazione verrà pian piano chiuso, per poi finire in cantina [1]. La dottrina del falco Jurgen Stark, uscita dalla porta, si appresta dunque a rientrare dalla finestra. Si può star certi che il dottor Draghi dovrà accoglierla con tutti gli onori. Le più fosche previsioni di un appello di 300 economisti, pubblicato nel giugno 2010, si stanno dunque avverando [2]. La pretesa della Bce di proteggere dagli attacchi speculativi solo i paesi devoti alla disciplina dell’austerity, si è rivelata un clamoroso errore, logico e politico. L’Italia, che ha dato i lumi al Rinascimento ma anche al Fascismo, ieri ha sancito che per l’euro non resta che recitare il De Profundis. Nessuno osi affermare che ha fatto da sola: i tecnocrati europei, condizionati dagli interessi prevalenti in Germania, stavano già da tempo preparando il fosso in cui seppellire la moneta unica.
E ora? Gli eredi più o meno degni del movimento operaio novecentesco che faranno? Sapranno anticipare il corso degli eventi o preferiranno anche stavolta fungere da ultima ruota del carro della Storia? Anziché lasciarsi travolgere dall’idea ottusa della “grande coalizione”, o riesumare il giovane dinosauro liberista Renzi per suicidarsi entro un anno, sarebbe forse opportuno che il Partito democratico e la CGIL prendessero atto che non è più tempo di parlare di politiche di convergenza o magari di standard retributivo europeo [3]. I proprietari tedeschi non sono più interessati alla moneta unica, le speranze di riforma dell’Unione monetaria sono ormai vane. Il punto dirimente è dunque uno soltanto: in che modo uscire dalla zona euro.
Il più probabile, allo stato dei fatti, è il modo di “destra”, che consiste nel favorire le fughe di capitale, aprire alle acquisizioni estere del capitale bancario e degli ultimi spezzoni rilevanti di capitale industriale nazionale, e lasciare i salari completamente sguarniti di fronte a un possibile sussulto dei prezzi e soprattutto delle quote distributive. C’è motivo di prevedere che non soltanto il redivivo Berlusconi ma anche molti altri inizieranno ad ammiccare a questa soluzione. Sedicenti “borghesi illuminati”, orde di opinionisti del mainstream si affretteranno a rifarsi una verginità giudicando l’euro un ideale kantiano fin dalle origini destinato al fallimento, riesumando Milton Friedman e i cambi flessibili e dichiarandosi favorevoli alla svalutazione allo scopo di rendere il paese appetibile per i capitali esteri a caccia di acquisizioni a buon mercato. Che dunque la moneta unica se ne vada al diavolo, grideranno: l’importante è salvare il mercato unico e la libera circolazione dei capitali dalle pulsioni protezioniste dei cosiddetti populisti! Ebbene, se le cose andranno in questi termini, c’è motivo di temere che la deflagrazione della zona euro potrebbe rivelarsi una macelleria messicana. Del resto, chi un po’ ha studiato la storia economica dell’ultimo secolo sa bene che la sovranità monetaria, presa isolatamente, non è la panacea, e che non sono stati per nulla infrequenti i casi di sganciamento da un regime di cambi fissi che hanno prodotto veri e propri disastri in termini di liquidazione del capitale nazionale e distruzione degli ultimi scampoli di diritti sociali. Beninteso, non sempre è andata male, ma in alcuni casi e per alcuni soggetti è andata malissimo. Per citare solo qualche esempio: nel 1992, dopo l’uscita dallo SME, in Italia la quota salari crollò dal 62 al 54%. Nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Per non parlare dei “fire sales” dei capitali nazionali favoriti dalla svalutazione. Il ripristino della sovranità monetaria è ormai imprescindibile, ma l’uscita “da destra” potrebbe trasformarlo in un incubo.
Questa prospettiva non costituisce però un destino inesorabile. Come abbiamo cercato di argomentare in questi mesi, c’è anche un modo alternativo di gestire l’implosione dell’eurozona, che consiste nel tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una ipotesi di uscita dall’euro declinata a “sinistra”. Vale a dire, in primo luogo: un arresto delle fughe di capitale; accorte nazionalizzazioni al posto delle acquisizioni estere dei capitali bancari; un meccanismo di indicizzazione dei salari e di amministrazione di alcuni prezzi base per governare gli sbalzi nella distribuzione dei redditi; la proposta di un’area di libero scambio tra i paesi del Sud Europa. Insomma: la soluzione “di sinistra” dovrebbe vertere sull’idea che se salta la moneta unica bisognerà mettere in questione anche alcuni aspetti del mercato unico europeo.
Verificare se esistono le condizioni per formare una coalizione sociale intorno a una ipotesi di uscita “da sinistra” dall’euro significherebbe anche mettere alla prova il Movimento 5 Stelle. Che sebbene abbia il vento in poppa difficilmente arriverà a governare da solo, e che in ogni caso si troverà presto di fronte al bivio ineludibile di qualsiasi politica economica: dare priorità agli imprenditori e ai piccoli proprietari, oppure cercare una sintesi con gli interessi dei lavoratori subordinati.
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro”. Pochi giorni dopo Draghi rimise la plurinfartuata moneta unica in coma farmacologico e il “piano B” finì nuovamente nel limbo dell’indicibile. Oggi se ne può riparlare? In tutta franchezza, anche adesso che l’euro è di nuovo in prossimità dello sfascio ho il sospetto che il PD e la CGIL non saranno in grado di compiere una tale virata. L’iceberg ormai lo vedono anche loro, e forse hanno persino capito che in gioco è la loro stessa sopravvivenza, come il destino del Pasok insegna. Ma hanno mangiato per decenni pane e “liberoscambismo”, e sono stati educati dai bignami di economia e di storia di Eugenio Scalfari, che fatica ormai persino a rammentare che alla vigilia della prima guerra mondiale imperversava non certo l’autarchia ma il gold standard e la piena libertà di circolazione internazionale dei capitali. Bisognerebbe oggi rileggere Keynes e studiare Dani Rodrik, di Harvard. Temo però che a sinistra non vi sarà nemmeno il tempo di un’autocritica, figurarsi di un cambio di paradigma [4].
Gli scomodi panni delle Cassandre iniziano a far male davvero: speriamo, almeno stavolta, di sbagliarci.
Emiliano Brancaccio da emilianobrancaccio.it