Pubblicato il 21 nov 2013
di Tonino Perna – il manifesto
Nel periodo 1901-1951 si sono registrate in Italia sei alluvioni, di
cui le più disastrose nel 1951, Polesine e Calabria, con 184 vittime.
Nel periodo 1998-2008, a partire dalla tragedia della Val di Sarno (159
vittime), si erano registrate sette alluvioni devastanti. Negli ultimi,
soli, quattro anni abbiamo avuto nove alluvioni disastrose generate da
piogge intense e «bombe d’acqua».
Prima Giampilieri (Messina), poi il Veneto e le Marche, Genova e le
Cinque Terre, la Lumigiana e il Vibonese, Barcellona (Me) e Massa
Carrara, Taranto e ora la Sardegna: in quattro anni un susseguirsi di
disastri, con morti e feriti, a cui segue il solito rito politico. Ci
sono quelli che in malafede denunciano l’eccezionalità dell’evento
naturale e piangono sui morti, feriti e dispersi. Gli altri denunciano
la scarsa cura del territorio, la speculazione edilizia, il mancato
preallarme della Protezione Civile. Dopo un paio di giorni, di accesi
dibattiti e talk show televisivi, la vita politica e mediatica si
riprende il suo spazio. La questione ambientale, i rischi a cui siamo
esposti, la prevenzione di cui tutti parlano ma nessuno la fa,
scompaiono dall’orizzonte. C’è la crisi, i tagli lineari e non, la
decadenza del Cavaliere, il Nuovo Centro Destra e le primarie del Pd, e
poi ancora le Province che si aboliscono e cambiano nome, le
contro-Riforme che vengono annunciate, Bruxelles che ci boccia e ci
chiede di fare gli esami di riparazione, e via dicendo. Fino alla
prossima alluvione, alla prossima bomba d’acqua, che metterà in
ginocchio un altro pezzo dell’ex Bel Paese. C’è qualcosa di profondo che
non va e di cui bisognerebbe prendere coscienza.
Da trent’anni si discute del rischio idrogeologico nel nostro paese,
ma le istituzioni non fanno niente per prevenirlo. Eppure le risorse
economiche ci sarebbero, ma non vengono spese come ricordava ieri il
ministro Carlo Trigilia. Tanti hanno scritto che prevenire costerebbe
molto meno che ricostruire e riparare i danni post-catastrofe.
Giusto, ma solo in una visione ideale, che non tiene conto del tasso
di profitto e dell’incentivo a investire. La prevenzione richiederebbe
interventi capillari sul territorio, opere di ingegneria naturalistica e
una pluralità di tecnici, piccole e medie imprese specializzate, operai
idraulico-forestali che finalmente verrebbero utilizzati per la
funzione per cui sono stati assunti. Un meccanismo molto complesso e
poco conveniente per chi gestisce il territorio (a cominciare dalle
Regioni). Invece, l’intervento post-catastrofe è un affare dal punto di
vista economico e politico, fa girare molti più soldi, più tangenti, più
extraprofitti, allarga le reti clientelari della classe politica locale
e nazionale. La dichiarazione dello «stato di emergenza» è un grande
business. Un esempio per tutti: il terremoto dell’Aquila. Chi non
ricorda le risate notturne dei due imprenditori appena appresa la
notizia della catastrofe? Ma, pochi sanno che, grazie al terremoto, nel
triennio 2010-2013 l’Abruzzo è la sola regione italiana in cui sono
aumentati fatturato e occupazione nell’edilizia, che sono letteralmente
crollati nel resto d’Italia. D’altra parte, lo stesso meccanismo vale
per altri disastri che si ripetono, d’estate, ogni anno: gli incendi.
Chi scrive dopo aver sperimentato con successo un metodo semplice,
basato sul coinvolgimento delle associazioni ambientaliste e cooperative
sociali, un metodo preso in considerazione anche a Bruxelles, ha visto
prevalere l’uso dell’affitto di elicotteri da parte delle Regioni.
Anziché prevenire a terra con sistemi capillari d’intervento, si è
preferito affidare ai privati la gestione dall’alto della lotta agli
incendi, con elicotteri che costano 3.500 euro l’ora. La Sma spa è, tra
gli altri, una società che ha stipulato contratti milionari con diverse
regioni meridionali. Complimenti.
Se queste sono le coordinate economico-politiche dentro le quali ci
hanno costretto a vivere da diversi decenni, oggi la situazione si è
ulteriormente complicata per via dei cambiamenti climatici. Siamo
entrati nell’era degli «eventi estremi» meteorologici con cui dobbiamo
fare i conti. Che cosa significa? Significa che quelli che un tempo
potevano essere classificati come «eventi eccezionali» stanno diventano
sempre più frequenti ed intensi. Vale a dire che uragani, tifoni,
cicloni, bombe d’acqua, trombe d’aria, stanno crescendo, in tutto il
mondo, come è testimoniato da una vasta letteratura scientifica. Questo
perché l’ecosistema è entrato in una fase di fibrillazione, in una fase
di «oscillazioni giganti» come le definiva il Nobel Prigogine, che
caratterizzano un sistema di fluidi quando si entra in una fase di
«squilibrio permanente». Nel caso del clima questo squilibrio è stato
causato, senza ormai alcun dubbio, dalla straordinaria accelerazione
nella produzione di CO2 , che dalla metà del secolo scorso è cresciuta
in maniera iperbolica. Anche se improvvisamente riducessimo della 20/30
per cento la produzione di gas serra (assolutamente auspicabile quanto
improbabile) nel medio-lungo periodo dovremmo comunque convivere con gli
«eventi estremi», che diventeranno sempre più disastrosi nella misura
in cui continueremo, ai ritmi attuali, a immettere CO2 nell’atmosfera.
Vivere nell’era degli «eventi estremi» significa ripensare il nostro
modo di costruire, di canalizzare le acque, di gestire i fiumi e le
fiumare, le coste, e naturalmente i sistemi urbani. Quando si parla di
dissesto idrogeologico spesso ci si dimentica del dissesto urbano e si
pensa solo a colline e montagne. Le nostre città, nessuna esclusa, non
sono oggi in grado di reggere 400 mm di pioggia in ventiquattro ore,
come è accaduto a Olbia. Se fosse successo in una grande città i morti
sarebbero stati centinaia, i danni si sarebbero contati in miliardi di
euro.
Abbiamo pertanto bisogno di elaborare e implementare un piano di
sicurezza territoriale all’altezza della sfida che il cambiamento
climatico ci impone. Sicurezza è una categoria che è stata finora usata
nei confronti della microcriminalità, dell’arrivo dei migranti, delle
minacce del terrorismo. Il paese leader nelle politiche di sicurezza
sono gli Usa dove negli ultimi decenni governo e sindaci delle
metropoli, in nome della «sicurezza nazionale e locale», si sono
impegnati nella repressione della microcriminalità, dei migranti, del
terrorismo. Peccato che non si siano accorti che tifoni, cicloni e
uragani, crescono in frequenza e intensità ogni anno che passa e stanno
distruggendo vaste aree in tutti gli States, dove si continuano a
costruire casette unifamiliari in legno e malta, che vengono
letteralmente spazzati via.
Dobbiamo, pertanto, recuperare politicamente la categoria della
«sicurezza», finora regalata alla destra in tutto il mondo occidentale.
Sicurezza dei territori non solo di fronte agli «eventi estremi», ma
anche come opera di risanamento dei terreni inquinati (Campania docet),
delle acque malsane, dell’aria che è diventata irrespirabile in tante
città. Non lo possiamo fare da soli, abbiamo bisogno di una grande
alleanza a livello europeo per cambiare gli orizzonti della politica di
austerity di breve respiro. Lo dobbiamo fare insieme a tutte quelle
forze sociali e politiche che nella Ue si battono per un altro modo di
produzione, per un altro modello sociale, per una vera qualità della
vita come obiettivo prioritario. È la più grande sfida del nostro tempo.