giovedì 30 gennaio 2014
L'EDITORIALE DI DINO GRECO
La fuga della Fiat: paradigma di un'Italia in ginocchio
Fine della storia. La Fiat (Fabbrica Italiana Automobili
Torino) è defunta e - come capisce chiunque non voglia ingannare se
stesso o il prossimo - non soltanto nell'acronimo. Fiat Chrysler
Automobiles (Fca) il nuovo gruppo sortito dall'unione della casa
torinese e di quella di Detroit ha in Italia solo una modesta dependance
produttiva, aree di grande cubatura che ospitano stabilimenti in gran
parte dismessi, migliaia di operai in cassa integrazione, nessun serio
progetto per il futuro. Il board strategico è già migrato a Detroit,
insieme al know how nostrano, preziosa merce di scambio spesa
per entrare in Chrysler senza che la Famiglia dovesse scucire un soldo
bucato. Per la sede legale è stata scelta Amsterdam, al fine di
sfruttare il maggior peso concesso nel voto in assemblea ai soci che
abbiano la maggiore quota di una società. Così, con meno del 30 per
cento della nuova Fiat, gli Agnelli potranno controllare la società,
cosa che con le leggi italiane sull'Opa non sarebbe possibile. La sede
fiscale verrà invece "opportunamente" allocata a Londra, operazione che
si spiega con i vantaggi che il sitema inglese accorda a chi matura
dividendi all'estero. L'azienda ha provato a dissipare questa ulteriore
ombra su un gruppo industriale che ha totalmente perso le proprie radici
nazionali e che dopo avere succhiato sino all'osso risorse materiali ed
umane dall'Italia ora trova la scappatoia per evadere anche le tasse
dovute. “Questa scelta non avrà effetti sull’imposizione fiscale cui
continueranno ad essere soggette le società del gruppo nei vari Paesi in
cui svolgeranno le loro attività”, ha provato a controbattere il
Lingotto, ma non la pensano così neanche i fiscalisti britannici.
Infine, scelta del tutto scontata, la quotazione in borsa sarà sulla piazza newyorkese, a Wall Street, forse già dal 1° ottobre. A Milano rimarrà la quotazione secondaria del gruppo. E' sul mercato americano che Fca andrà a drenare capitali. Ed è lì che restituirà qualcosa, avendo di fronte un governo che forse non si limiterà a fare da zerbino.
E' chiaro come il sole che le produzioni e l'occupazione in Italia rappresentano per il nuovo player internazionale l'ultima delle preoccupazioni. Lo hanno perfettamente compreso anche gli osservatori internazionali. ”Arrivederci Italia!”, titola il quotidiano economico tedesco Handelsblatt. Il giornale racconta che in Italia “è scoppiato il panico per il timore che parte di Fiat possa essere trasferita all’estero”, anche se “il passaggio è in corso già da tempo: dal 1990 il numero delle vetture prodotte in Italia è crollato da 1,9 milioni ad appena 400mila nel 2012″.
Sfidando il ridicolo, Enrico Letta, e lui solo, si rallegra. Va raccontando che un gruppo a "vocazione globale" come Fca potrà fare gli investimenti necessari a garantire il lavoro anche in Italia. E finge di non accorgersi che il piatto è vuoto. Come il il più genuflesso dei servi, prende ceffoni e ringrazia.
Infine, scelta del tutto scontata, la quotazione in borsa sarà sulla piazza newyorkese, a Wall Street, forse già dal 1° ottobre. A Milano rimarrà la quotazione secondaria del gruppo. E' sul mercato americano che Fca andrà a drenare capitali. Ed è lì che restituirà qualcosa, avendo di fronte un governo che forse non si limiterà a fare da zerbino.
E' chiaro come il sole che le produzioni e l'occupazione in Italia rappresentano per il nuovo player internazionale l'ultima delle preoccupazioni. Lo hanno perfettamente compreso anche gli osservatori internazionali. ”Arrivederci Italia!”, titola il quotidiano economico tedesco Handelsblatt. Il giornale racconta che in Italia “è scoppiato il panico per il timore che parte di Fiat possa essere trasferita all’estero”, anche se “il passaggio è in corso già da tempo: dal 1990 il numero delle vetture prodotte in Italia è crollato da 1,9 milioni ad appena 400mila nel 2012″.
Sfidando il ridicolo, Enrico Letta, e lui solo, si rallegra. Va raccontando che un gruppo a "vocazione globale" come Fca potrà fare gli investimenti necessari a garantire il lavoro anche in Italia. E finge di non accorgersi che il piatto è vuoto. Come il il più genuflesso dei servi, prende ceffoni e ringrazia.
Dino Greco
mercoledì 29 gennaio 2014
IPSE DIXIT
Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e
lottano con i lavoratori e gli oppressi, non c'è scampo per un vecchio
ordine fondato sul privilegio e sull'ingiustizia.
lunedì 27 gennaio 2014
LETTERA APERTA DI ALEXIS TSIPRAS ALL'UNITA' DELLA SINISTRA
«Uniti per un'Europa dei popoli»
«È con entusiasmo che accogliamo la lettera di Alexis
Tsipras, Presidente di Syriza e proposto quale candidato Presidente alla
Commissione europea dal Partito della Sinistra Europea». Così Paolo
Ferrero, segretario nazionale del Prc, rende noto il testo della lettera
indirizzata agli estensori dell'appello in favore della candidatura di
Alexis Tsipras e inviata anche al Partito della Rifondazione Comunista
in quanto partito fondatore e aderente alla Sinistra Europea.
«Rifondazione Comunista - prosegue Ferrero - mette a disposizione la sua
forza, la sua intelligenza e la sua passione per costruire attorno alla
candidatura di Tsipras una lista che possa rappresentare una speranza
per un’altra Europa e raccogliere il sostegno di tutti quelli che in
Italia si battono contro le politiche di austerità prodotte in questi
anni a livello europeo e nazionale dall'accordo tra socialisti, popolari
e liberali. Contro l'Europa di Maastricht, del Fiscal Compact e della
precarietà - conclude il segretario del Prc - costruiamo l'Europa dei
popoli, della democrazia e del lavoro».
Il testo della lettera.
«Care compagne e compagni,
volevo prima di tutto ringraziarvi per la vostra fiducia e per
l'onore che fate a me, Syriza e il Partito della Sinistra Europea
proponendo di mettermi in primo piano in una lista in Italia.
Una proposta che rappresenta un riconoscimento morale per le
nostre lotte dall'inizio della crisi in Grecia e il nostro tentativo di
internazionalizzare il problema nell'Europa del Sud.
Una proposta che COMPLETA quella del Partito della Sinistra
Europea per la mia candidatura per la presidenza della Commissione
Europea.
In Grecia, in Italia e nell'Europa del Sud in genere siamo
testimoni di una crisi senza precedenti, che è stata imposta attraverso
una dura austerità che ha fatto esplodere a livelli storici la
disoccupazione, ha dissolto lo stato sociale e annullato i diritti
politici, economici, sociali e sindacali conquistati. Questa crisi
distrugge ogni cosa che tocca: la società, l'economia, l'ambiente, gli
uomini.
«L'Europa è stata il regno della fantasia e della creatività.
Il regno dell'arte», ci ha insegnato Andrea Camilleri, per finire in «un
colpo di stato di banchieri e governi», come ha aggiunto Luciano
Gallino.
Questa Europa siamo chiamati a rovesciare partendo dalle urne
il 25 di maggio nelle elezioni per il Parlamento Europeo. Scommettendo
sulla ricostruzione di una Europa democratica, sociale e solidale.
La vostra proposta per l'unità, aperta e senza esclusioni,
della sinistra sociale e politica anche in Italia rappresenta un
prezioso strumento per cambiare gli equilibri nell'Europa del Sud e in
modo più generale in Europa.
Syriza ed io personalmente sosteniamo che l'unità della
sinistra con i movimenti ed i cittadini colpiti dalla crisi rappresenta
il migliore lievito per il rovesciamento. È la condizione necessaria per
cambiare le cose.
La vostra proposta per la creazione di una lista aperta,
democratica e partecipativa della sinistra italiana, dei movimenti e
della società civile in Italia per le elezioni europarlamentari di
maggio, con l'obiettivo di appoggiare la mia candidatura per la
Presidenza della Commissione Europea, può rappresentare con queste
condizioni un tentativo di aprire una nuova speranza con successo.
La prima condizione è che questa lista si costituisca dal
basso, con l'iniziativa dei movimenti, degli intellettuali, della
società civile.
La seconda condizione è di non escludere nessuno. Si deve
chiamare a parteciparvi e a sostenerla prima di tutto i semplici
cittadini, ma anche tutte le associazioni e le forze organizzate che lo
vogliono.
La terza condizione è di avere come speciale e unico scopo
quello di rafforzare i nostri sforzi in queste elezioni europee per
cambiare gli equilibri in Europa a favore delle forze del lavoro contro
le forze del capitale e dei mercati. Di difendere l'Europa dei popoli,
di mettere freno all'austerità che distrugge la coesione sociale. Di
rivendicare di nuovo la democrazia.
L'esperienza di Syriza in Grecia ci ha insegnato che in tempi
di crisi e di catastrofe sociale, come oggi, è di sinistra, radicale,
progressista ogni cosa che unisce e non divide.
Solo se facciamo tutti insieme un passo indietro, per fare
tutti insieme molti passi in avanti, potremo cambiare la vita degli
uomini.
In un quadro del genere anche il mio contributo potrà essere utile a tutti noi, ma prima di tutto ai popoli d'Italia e d'Europa.
Fraterni saluti,
Alexis Tsipras
Presidente di Syriza e Vicepresidente del Partito della Sinistra Europea
venerdì 24 gennaio 2014
L'EDITORIALE DI DINO GRECO
ECONOMIA
Parte la grande svendita. Saccomanni: "Si comincia dalle Poste, poi vediamo"
Il ministro dell'Economia Fabrizio Saccomanni annuncia
per domani il decreto sulle privatizzazioni. Secondo il titolare delle
Finanze, al primo posto dell'agenda andrà il 40% di Poste Italiane.
Inizia così il valzer delle alienazioni dei gioielli di Stato. Tutto per
fare cassa, soddisfare il terema monetarista dell'Ue e onorare il dogma
del pareggio di bilancio, ficcato sciaguratamente nella Costituzione
quasi fosse una tessera della tavola dei valori fondanti. "Domani ci
sarà il decreto del presidente del Consiglio dei ministri che fa
iniziare il processo di privatizzazione previsto. Per le Poste si
comincia con il 40% poi vediamo", ha detto il ministro a margine del World Economic Forum di Davos.
A fine novembre, il governo aveva annunciato l'intenzione di raccogliere 12 miliardi mettendo sul mercato alcuni gioielli di famiglia dello Stato. Una quota di controllo di Sace e Grandi Stazioni, poi quote non di maggioranza di Enav, Stm, Fincantieri, Cdp Reti, il gasdotto Tag e un 3% di Eni. Erano queste le società inizialmente indicate, salvo poi vedere entrare nella partita anche le Poste, che hanno appunto guadagnato il primo posto nell'agenda di Palazzo Chigi. Nei giorni scorsi, il viceministro Antonio Catricalà aveva definito "plausibile" la quotazione di Poste entro l'anno, aggiungendo che "sarà privatizzato il 30-40% del gruppo e la maggioranza resterà allo Stato. Spetterà al Ministero dell'Economia decidere come ripartire le quote".
Come si vede, si naviga a vista. Non c'è, in questo barcamenarsi, uno straccio di disegno strategico, non un'idea su quali siano gli asset su cui puntare per ri-orientare virtuosamente la ripresa e lo sviluppo del Paese. Parlare ai nostri governanti, di qualsiasi conventicola facciano parte, di politica economica, di progettazione industriale è ormai come chiedere di scrivere un libro a degli analfabeti. Prigionieri del più cieco mercatismo, costoro stanno distruggendo le fondamenta manifatturiere (o ciò che ne resta) dell'Italia. Parlano insulsamente di ripresa e non si rendono conto che stanno segando, per malafede o pusillanime incompetenza, il ramo su cui siamo seduti. Qualche giorno fa l'Organizzazione mondiale del lavoro (l'Oil), che non è certo guidata da un manipolo di pericolosi estremisti, aveva censurato senza mezzi termini le poltiche deflazioniste intraprese dal governo italiano, prevedendo che esse avrebbero non soltanto aggravato la recessione e il tracollo occupazionale, ma compromesso la stessa possibilità di mettere in ordine i conti, cosa possibile solo dentro un progetto di sviluppo guidato da una mano pubblica che non abdichi alle proprie responsabilità.
Ma Saccomanni non si scuote. Persino nell'amena località Svizzera, a qualche giornalista è venuto il sospetto che l'Italia stia scivolando sulla pericolosa china della depressione: contrazione dei consumi, arretramento dei prezzi, stagnazione economica e, alla fine, non minori bensì maggiori oneri reali per ripagare il debito. Ma lui niente, tranquillo e sereno come un bimbo ripete la filastrocca in cui si racconta di un paese che non c'è. "L'Italia - spiega Saccomanni - non rischia la deflazione ed è in una situazione completamente diversa da quella del Giappone, che ha vissuto una stagnazione economica di diversi lustri". E a chi gli chiedeva se si potesse riproporre lo scenario nipponico per l'Italia replica che "il nostro paese non ha bisogno di una cura da cavallo come quella che il premier giapponese Shinzo Abe sta proponendo per la sua economia". Peccato che il governo del Sol levante sta mettendo in campo grandi risorse per investimenti pubblici, mentre in Italia si taglia soltanto e sotto i colpi di quella cura il cavallo sta già stramazzando.
A fine novembre, il governo aveva annunciato l'intenzione di raccogliere 12 miliardi mettendo sul mercato alcuni gioielli di famiglia dello Stato. Una quota di controllo di Sace e Grandi Stazioni, poi quote non di maggioranza di Enav, Stm, Fincantieri, Cdp Reti, il gasdotto Tag e un 3% di Eni. Erano queste le società inizialmente indicate, salvo poi vedere entrare nella partita anche le Poste, che hanno appunto guadagnato il primo posto nell'agenda di Palazzo Chigi. Nei giorni scorsi, il viceministro Antonio Catricalà aveva definito "plausibile" la quotazione di Poste entro l'anno, aggiungendo che "sarà privatizzato il 30-40% del gruppo e la maggioranza resterà allo Stato. Spetterà al Ministero dell'Economia decidere come ripartire le quote".
Come si vede, si naviga a vista. Non c'è, in questo barcamenarsi, uno straccio di disegno strategico, non un'idea su quali siano gli asset su cui puntare per ri-orientare virtuosamente la ripresa e lo sviluppo del Paese. Parlare ai nostri governanti, di qualsiasi conventicola facciano parte, di politica economica, di progettazione industriale è ormai come chiedere di scrivere un libro a degli analfabeti. Prigionieri del più cieco mercatismo, costoro stanno distruggendo le fondamenta manifatturiere (o ciò che ne resta) dell'Italia. Parlano insulsamente di ripresa e non si rendono conto che stanno segando, per malafede o pusillanime incompetenza, il ramo su cui siamo seduti. Qualche giorno fa l'Organizzazione mondiale del lavoro (l'Oil), che non è certo guidata da un manipolo di pericolosi estremisti, aveva censurato senza mezzi termini le poltiche deflazioniste intraprese dal governo italiano, prevedendo che esse avrebbero non soltanto aggravato la recessione e il tracollo occupazionale, ma compromesso la stessa possibilità di mettere in ordine i conti, cosa possibile solo dentro un progetto di sviluppo guidato da una mano pubblica che non abdichi alle proprie responsabilità.
Ma Saccomanni non si scuote. Persino nell'amena località Svizzera, a qualche giornalista è venuto il sospetto che l'Italia stia scivolando sulla pericolosa china della depressione: contrazione dei consumi, arretramento dei prezzi, stagnazione economica e, alla fine, non minori bensì maggiori oneri reali per ripagare il debito. Ma lui niente, tranquillo e sereno come un bimbo ripete la filastrocca in cui si racconta di un paese che non c'è. "L'Italia - spiega Saccomanni - non rischia la deflazione ed è in una situazione completamente diversa da quella del Giappone, che ha vissuto una stagnazione economica di diversi lustri". E a chi gli chiedeva se si potesse riproporre lo scenario nipponico per l'Italia replica che "il nostro paese non ha bisogno di una cura da cavallo come quella che il premier giapponese Shinzo Abe sta proponendo per la sua economia". Peccato che il governo del Sol levante sta mettendo in campo grandi risorse per investimenti pubblici, mentre in Italia si taglia soltanto e sotto i colpi di quella cura il cavallo sta già stramazzando.
Dino Greco
in data:23/01/2014
martedì 21 gennaio 2014
Legge elettorale, ecco la nuova porcata di Renzi
POLITICA
Lo
chiama "Italicum" e la definisce una «proposta concreta, realizzabilee
con tempi certi». Eccola qua la riforma elettorale firmata Matteo Renzi,
che il segretario del Pd ha illustrato alla direzione del suo partito,
confezionata in «profonda sintonia» con Berlusconi. E che è la proposta
sulla quale la Direzione del Pd dovrà dare il suo via libera, per essere
portata a Montecitorio il 27 gennaio, come da caldenario fissato dal
medesimo Renzi.
Come primo obiettivo il segretario ha indicato la cancellazione del Senato e il superamento del bicameralismo perfetto, con la conseguente riduzione dei costi della politica. A seguire ha ribadito l'intenzione di mettere ordine al Titolo V della Costituzione, con la razionalizzazione della ripartizione di competenze fra stato centrale e Regioni. Ed è infine entrato nel merito della legge elettorale. Una riforma, vale la pena sottolineare, di cui non c’è alcun bisogno (lo ha chiarito bene la Corte Costituzionale, secondo la quale si può votare con la legge attualmente in vigore, cioè quella uscita dalla sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum), ma che tanto a Berlusconi quanto a Renzi serve per mantenere lo scettro del comando nei rispettivi partiti/coalizioni, senza il fastidio di dover fare alleanze e senza dover subire “ricatti” dai “piccoli”. Non a caso, la proposta avanzata produce effetti bipolari ed è tesa a premiare i partiti maggiori, a danno di quelli minori. E pazienza se nella sentenza della Consulta, tra l’altro, si faceva esplicito riferimento all’articolo 48 della Costituzione, quello in cui si stabilisce che «il voto è personale ed eguale», mentre tra premi di maggioranza e sbarramenti si finisce con l’alterare «il peso del voto (che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi)». Si vede che il parere della Corte costituzionale va bene solo a fasi alterne. Tant’è, la proposta di Renzi è così concepita: premio di maggioranza pari al 18% se si raggiunge almeno il 35% (e non è lo stesso una porcata dare la maggioranza assoluta a chi la maggioranza assoluta nelle urne non ha preso? Vale la pena ricordare che la Legge “Truffa” del 1953 assegnava un premio di maggioranza a chi avesse comunque ottenuto la maggioranza del 50% più uno nelle urne), ballottaggio per ottenere il premio se nessuna coalizione raggiunge il 35%, listini corti (e bloccati, bye bye Consulta) di sei candidati per ogni collegio, sbarramento al 5% per le forze che fanno parte di una coalizione e all’8% per chi si presenta da solo. Con tanti saluti alla rappresentanza democratica.
Ma soprattutto, Renzi ha chiarito che Riforme e nuova legge elettorale fanno parte di un unico pacchetto non modificabile frutto anche dell'intesa raggiunta con Silvio Berlusconi. E in questo senso, ha sottolineato, «l'accordo politico non prevede le preferenze». Il segretario ha poi ribadito che il Pd sceglierà i suoi candidati con le primarie («Un'idea già attuata lo scorso anno da Bersani») e di volere per le proprie liste il «vincolo assoluto della rappresentanza di genere», ovvero l'alternanza uomo-donna negli elenchi sottoposti agli elettori.
La proposta del ballottaggio dovrebbe (sarebbe dovuta) servire a limitare i malumori interni, assecondando almeno in parte le richieste di chi fin dall’inizio si era espresso per un doppio turno alla francese o per una legge sul modello di quella con cui si eleggono i sindaci dei comuni sopra i 15 mila abitanti. Non a caso il bersaniano Alfredo D’Attorre, che nei giorni scorsi era arrivato ad evocare una rottura dopo l’intesa con Berlusconi, parla ora di «un passo avanti rilevante» auspicando un ulteriore ritocco con il superamento delle liste bloccate. Stessa linea per il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza. Ma dal presidente dei democratici, Gianni Cuperlo, arriva l'altolà:
«La riforma elettorale non risulta ancora convincente perché non garantisce né la rappresentanza adeguata né il diritto dei cittadini di scegliere gli eletti né una ragionevole governabilità». Il leader della minoranza interna, inoltre, vede nella proposta avanzata «profili di dubbia costituzionalità». «Al nostro interno non c’è una maggioranza che spinge per cambiare e una minoranza che vuole restare ferma immobile sulle gambe o peggio intralciare un processo riformatore: vogliamo essere tutti noi protagonisti del passaggio a una repubblica rinnovata consolidando le istituzioni di una democrazia in crisi», ha aggiunto il presidente parlando alla Direzione Pd. E c'è da registrare l'affondo dell'ex viceministro Stefano Fassina, secondo il quale «l’accordo (con Berlusconi, ndr) non è stato fatto dal Pd, che si dovrà esprimere, ma dal segretario Renzi. Mi sono un po’ vergognato come dirigente del Pd nel vedere l’incontro di Renzi con Berlusconi. E’ stato un errore politico. Andava certo coinvolta Forza Italia, ci sono i capigruppo e non dovevamo certo rilegittimare il Cavaliere per la terza volta, dopo che c’è stata una sentenza di condanna». Fassina ha smentito ipotesi scissioniste («Resto e credo nel partito come sempre») ma avanza l’idea di un referendum tra gli iscritti: «Come prevede lo statuto, sarebbe possibile consultare gli iscritti anche per via telematica, rapidamente, per sapere cosa pensino della legge elettorale». L’obiezione di Renzi è già pronta: sono appena stato votato alle primarie, il mandato degli elettori ce l’ho già (fa niente se “elettori” e iscritti” non sono esattamente la stessa cosa, è roba da partiti novecenteschi).
Ma proprio con il presidente del partito è andato in scena lo scontro più violento, culminato con il gesto di rottura di Cuperlo che si alza e se ne va, infuriato per l'attacco personale del segretario che così ha replicato alle sue critiche: «Chi parla di preferenze non avrebbe dovuto farsi candidare nel listino bloccato schivando le primarie. Almeno Fassina ha preso 12 mila preferenze...». Ma poi la minoranza, rimasta "orfana" del leader, ha preferito non contarsi decidendo di astenersi. La proposta di Renzi è così passata con 111 voti a favore (meno di quelli ottenuti dalla relazione del segretario alla riunione della scorsa settimana) e 34 astensioni.
Stroncatura senza appello, invece, dalla Lega, con il segretario Matteo Salvini che invoca una mobilitazione contro quella che definisce «una legge truffa» (detto da chi il Porcellum l'ha pensato e poi votato lascia interdetti). E da Beppe Grillo, che alla nuova proposta di legge ha già dato, di par suo, il nome di «Pregiudicatellum».
Per Paolo Ferrero, segretario del Prc, «la proposta di Renzi è di una gravità inaudita: calpesta la sentenza della Corte sulla legge elettorale riproponendo nei fatti il Porcellum e con il suo compagno di merende Berlusconi, resuscitato per l’occasione, si vuole pappare tutto il Parlamento. Renzi e Berlusconi, che la pensano nello stesso modo su quasi tutto, vogliono occupare tutto il parlamento impedendo ad altre forze che non condividono le loro politiche di austerità di poter dire la loro. Renzi - conclude Ferrero - si nasconde dietro la prima repubblica ma in realtà vuole affossare la democrazia mantenendo in piedi solo la finzione teatrale del bipolarismo».
Come primo obiettivo il segretario ha indicato la cancellazione del Senato e il superamento del bicameralismo perfetto, con la conseguente riduzione dei costi della politica. A seguire ha ribadito l'intenzione di mettere ordine al Titolo V della Costituzione, con la razionalizzazione della ripartizione di competenze fra stato centrale e Regioni. Ed è infine entrato nel merito della legge elettorale. Una riforma, vale la pena sottolineare, di cui non c’è alcun bisogno (lo ha chiarito bene la Corte Costituzionale, secondo la quale si può votare con la legge attualmente in vigore, cioè quella uscita dalla sentenza che ha dichiarato incostituzionale il Porcellum), ma che tanto a Berlusconi quanto a Renzi serve per mantenere lo scettro del comando nei rispettivi partiti/coalizioni, senza il fastidio di dover fare alleanze e senza dover subire “ricatti” dai “piccoli”. Non a caso, la proposta avanzata produce effetti bipolari ed è tesa a premiare i partiti maggiori, a danno di quelli minori. E pazienza se nella sentenza della Consulta, tra l’altro, si faceva esplicito riferimento all’articolo 48 della Costituzione, quello in cui si stabilisce che «il voto è personale ed eguale», mentre tra premi di maggioranza e sbarramenti si finisce con l’alterare «il peso del voto (che dovrebbe essere uguale e contare allo stesso modo ai fini della traduzione in seggi)». Si vede che il parere della Corte costituzionale va bene solo a fasi alterne. Tant’è, la proposta di Renzi è così concepita: premio di maggioranza pari al 18% se si raggiunge almeno il 35% (e non è lo stesso una porcata dare la maggioranza assoluta a chi la maggioranza assoluta nelle urne non ha preso? Vale la pena ricordare che la Legge “Truffa” del 1953 assegnava un premio di maggioranza a chi avesse comunque ottenuto la maggioranza del 50% più uno nelle urne), ballottaggio per ottenere il premio se nessuna coalizione raggiunge il 35%, listini corti (e bloccati, bye bye Consulta) di sei candidati per ogni collegio, sbarramento al 5% per le forze che fanno parte di una coalizione e all’8% per chi si presenta da solo. Con tanti saluti alla rappresentanza democratica.
Ma soprattutto, Renzi ha chiarito che Riforme e nuova legge elettorale fanno parte di un unico pacchetto non modificabile frutto anche dell'intesa raggiunta con Silvio Berlusconi. E in questo senso, ha sottolineato, «l'accordo politico non prevede le preferenze». Il segretario ha poi ribadito che il Pd sceglierà i suoi candidati con le primarie («Un'idea già attuata lo scorso anno da Bersani») e di volere per le proprie liste il «vincolo assoluto della rappresentanza di genere», ovvero l'alternanza uomo-donna negli elenchi sottoposti agli elettori.
La proposta del ballottaggio dovrebbe (sarebbe dovuta) servire a limitare i malumori interni, assecondando almeno in parte le richieste di chi fin dall’inizio si era espresso per un doppio turno alla francese o per una legge sul modello di quella con cui si eleggono i sindaci dei comuni sopra i 15 mila abitanti. Non a caso il bersaniano Alfredo D’Attorre, che nei giorni scorsi era arrivato ad evocare una rottura dopo l’intesa con Berlusconi, parla ora di «un passo avanti rilevante» auspicando un ulteriore ritocco con il superamento delle liste bloccate. Stessa linea per il capogruppo alla Camera, Roberto Speranza. Ma dal presidente dei democratici, Gianni Cuperlo, arriva l'altolà:
«La riforma elettorale non risulta ancora convincente perché non garantisce né la rappresentanza adeguata né il diritto dei cittadini di scegliere gli eletti né una ragionevole governabilità». Il leader della minoranza interna, inoltre, vede nella proposta avanzata «profili di dubbia costituzionalità». «Al nostro interno non c’è una maggioranza che spinge per cambiare e una minoranza che vuole restare ferma immobile sulle gambe o peggio intralciare un processo riformatore: vogliamo essere tutti noi protagonisti del passaggio a una repubblica rinnovata consolidando le istituzioni di una democrazia in crisi», ha aggiunto il presidente parlando alla Direzione Pd. E c'è da registrare l'affondo dell'ex viceministro Stefano Fassina, secondo il quale «l’accordo (con Berlusconi, ndr) non è stato fatto dal Pd, che si dovrà esprimere, ma dal segretario Renzi. Mi sono un po’ vergognato come dirigente del Pd nel vedere l’incontro di Renzi con Berlusconi. E’ stato un errore politico. Andava certo coinvolta Forza Italia, ci sono i capigruppo e non dovevamo certo rilegittimare il Cavaliere per la terza volta, dopo che c’è stata una sentenza di condanna». Fassina ha smentito ipotesi scissioniste («Resto e credo nel partito come sempre») ma avanza l’idea di un referendum tra gli iscritti: «Come prevede lo statuto, sarebbe possibile consultare gli iscritti anche per via telematica, rapidamente, per sapere cosa pensino della legge elettorale». L’obiezione di Renzi è già pronta: sono appena stato votato alle primarie, il mandato degli elettori ce l’ho già (fa niente se “elettori” e iscritti” non sono esattamente la stessa cosa, è roba da partiti novecenteschi).
Ma proprio con il presidente del partito è andato in scena lo scontro più violento, culminato con il gesto di rottura di Cuperlo che si alza e se ne va, infuriato per l'attacco personale del segretario che così ha replicato alle sue critiche: «Chi parla di preferenze non avrebbe dovuto farsi candidare nel listino bloccato schivando le primarie. Almeno Fassina ha preso 12 mila preferenze...». Ma poi la minoranza, rimasta "orfana" del leader, ha preferito non contarsi decidendo di astenersi. La proposta di Renzi è così passata con 111 voti a favore (meno di quelli ottenuti dalla relazione del segretario alla riunione della scorsa settimana) e 34 astensioni.
Stroncatura senza appello, invece, dalla Lega, con il segretario Matteo Salvini che invoca una mobilitazione contro quella che definisce «una legge truffa» (detto da chi il Porcellum l'ha pensato e poi votato lascia interdetti). E da Beppe Grillo, che alla nuova proposta di legge ha già dato, di par suo, il nome di «Pregiudicatellum».
Per Paolo Ferrero, segretario del Prc, «la proposta di Renzi è di una gravità inaudita: calpesta la sentenza della Corte sulla legge elettorale riproponendo nei fatti il Porcellum e con il suo compagno di merende Berlusconi, resuscitato per l’occasione, si vuole pappare tutto il Parlamento. Renzi e Berlusconi, che la pensano nello stesso modo su quasi tutto, vogliono occupare tutto il parlamento impedendo ad altre forze che non condividono le loro politiche di austerità di poter dire la loro. Renzi - conclude Ferrero - si nasconde dietro la prima repubblica ma in realtà vuole affossare la democrazia mantenendo in piedi solo la finzione teatrale del bipolarismo».
lunedì 20 gennaio 2014
PIANO PER IL LAVORO E L’ECONOMIA ECOLOGICA E SOLIDALE
PIANO PER IL LAVORO
E L’ECONOMIA ECOLOGICA
E SOLIDALE
Questa
proposta di legge si pone l’obiettivo di dare risposta alla crisi economica e
alla disoccupazione molto grave.
La
crisi è la conseguenza di scelte politiche fatte negli ultimi 30 anni, a favore
delle grandi concentrazioni di potere economico e finanziario privato.
Queste
politiche hanno portato ad un gigantesco aumento delle disuguaglianze in
Italia.
La
sovracapacità produttiva, cioè si produce di più di quel che si consuma, ha
indotto il capitalismo per lungo tempo a promuovere il consumo a debito.
Risultato
degrado culturale, ambientale, sociale e speculazione finanziaria.
Per
salvare le banche private la Commissione Europea negli ultimi anni ha approvato
aiuti di Stato in favore di esse per 4.600 miliardi di euro.
Quindi
nuovi tagli allo Stato Sociale, nuove privatizzazioni, precariato, perdita di
diritti per i lavoratori e con la speculazione finanziaria il debito pubblico
continua ad aumentare nonostante le
entrate fiscali, cioè le tasse che gli italiani pagano siano superiori alle
uscite, cioè i servizi (la scuola, la sanità e le opere pubbliche) e nonostante
negli ultimi vent’anni ci sia stato un avanzo primario di oltre 500 miliardi di
euro, si sono pagati interessi sul debito per 2.000 miliardi di euro, favorendo
di fatto la speculazione.
Un
governo serio andrebbe a congelare e ridiscutere questo grande debito.
Il
piano per il lavoro si pone l’obiettivo di creare occupazione attraverso il
rilancio dell’intervento pubblico in economia, la riduzione dell’orario di
lavoro ed una redistribuzione della ricchezza.
I
settori individuati sono la riconversione ecologica delle produzioni, il
risparmio energetico, produzioni di energia da fonti rinnovabili, il sostegno
all’industria di base chimica e siderurgica, il sostegno alla filiera corta in
agricoltura , la sicurezza del territorio rispetto al rischio idrogeologico, la
manutenzione straordinaria della rete idrica e un piano per la politica
“rifiuti zero”.
L’obiettivo
è di creare un milione e mezzo di posti di lavoro, di lavorare 32 ore alla
settimana con l’estendere i contratti di solidarietà, di introdurre un tetto
per le retribuzioni dei dipendenti pubblici che non possano superare
l’ammontare equivalente di 5 volte la media delle retribuzioni stesse.
L’acquisizione
attraverso l’esproprio di imprese che delocalizzano, che cessano l’attività
produttiva e l’affido di queste, con la predisposizione di piani industriali e
progetti di riconversione e di riqualificazione, a lavoratrici e lavoratori
costituiti in cooperativa.
Le
imprese italiane che hanno delocalizzato negli ultimi 30 anni hanno un
1.600.000 occupati in Oriente e all’Est Europeo.
Si
prevede inoltre di riportare i requisiti per la pensione vigenti prima della Riforma
Fornero, con la pensione di vecchiaia a 60 anni per le donne e a 65 per gli
uomini e la pensione di anzianità a 40 anni di contributi.
Il
tetto della pensione non deve superare un massimo di 75.000 euro lorde annue.
Come
finanziare queste proposte:
Si
istituisce una patrimoniale sulle ricchezze immobiliari e finanziarie superiori
alle 700.000 euro con un’aliquota progressiva dell’1%, la modifica delle
aliquote sui redditi a partire da 70.000 euro, il portare a 23% imposta sulle
rendite finanziarie, la soppressione del programma dell’acquisto degli F-35, il
ritiro delle missioni di guerra che hanno un costo di oltre 2 miliardi di euro
all’anno e la soppressione della TAV e delle grandi opere inutili.
L’istituzione di un
fondo di 10 miliardi della Cassa depositi e prestiti che deve ridiventare
interamente pubblica.
Ecco
questa, in sintesi, è la proposta di legge di iniziativa popolare che il Prc ha
elaborato da presentare in Parlamento.
Servono
50.000 firme in tutta Italia, chiediamo a tutti i cittadini di aderire e
firmare nei Comuni e nei banchetti che verranno organizzati.
venerdì 17 gennaio 2014
Europee, una lista unitaria a sostegno di Tsipras. È tanto difficile provarci?
POLITICA
Attorno alla proposta del Partito della Sinistra Europea
di candidare Alexis Tsipras a Presidente della Commissione Europea, si
sta determinando in Italia una certa attenzione con autorevoli prese di
posizione pubbliche e diverse iniziative a sostegno. Anche tra altri
partiti a sinistra del PD, oltre a Rifondazione Comunista che fa parte
del Partito della Sinistra Europea, pare aprirsi una discussione
sull’opportunità di appoggiare Tsipras.
Si tratta di un fatto molto positivo, reso possibile dal fatto che
l’esperienza greca di Syriza e il ruolo svolto da Tsipras sono
unanimemente considerati un punto di riferimento nel variegato mondo
della sinistra antiliberista italiana. La Grecia è il paese in cui più
devastante è stato l’impatto delle politiche europee, ma soprattutto
quello in cui la sinistra radicale è riuscita a costruire un’alternativa
politica alle forze neoliberiste.
Rifondazione non solo è stata a livello europeo tra i promotori
della candidatura di Tsipras ma già da mesi, dentro il suo percorso
congressuale, ha espresso un convinto orientamento a favore della
costruzione in Italia di una lista unitaria della sinistra antiliberista
a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras.
Riteniamo che proprio dall’esperienza di Syriza si possa trarre
un’utile lezione per superare idiosincrasie, diffidenze, veti
incrociati, contrapposizioni sterili che hanno finora impedito di
superare la frantumazione che contraddistingue negativamente la sinistra
antiliberista in Italia. Non ci interessa rivendicare primogeniture né
consumare energie in manovre egemoniche inutili. Noi riteniamo
prioritario lavorare per unire tutti quelli che si oppongono alle
politiche di austerity sulla base del rispetto per le storie, le
culture, le esperienze organizzative differenti.
Con questo spirito segnalo che il tempo a disposizione non è molto e
che, ad oggi, tutti i soggetti che si sono mossi con l’intento di
costruire una lista in appoggio a Tsipras, lo hanno fatto
separatamente. Vi sono tante e meritorie iniziative ma non vi è dialogo
tra loro e questo rende assai complicato costruire una lista per le
elezioni, raccogliere le firme necessarie per presentarle, e così via.
Ad oggi vi sono cioè tanti spazi “privati” che condividono lo stesso
obiettivo ma non vi è ancora uno spazio pubblico.
Per superare questa situazione è indispensabile avviare un processo unitario condiviso, pubblico, democratico e partecipato.
Noi proponiamo di costruire questo spazio pubblico e a partire da
questo una lista unitaria su pochi presupposti comuni e chiedendo a
tutti di rinunciare a steccati identitari e a logiche escludenti.
E’ evidente che l’appoggio a Tsipras non può che accompagnarsi alla
scelta del GUE – Gruppo Unitario della Sinistra - come riferimento nel
parlamento europeo, cioè al gruppo assai plurale che raccoglie tutte le
forze di sinistra ed ecologiste che si sono opposte in modo chiaro alle
politiche di austerità portate avanti da socialisti, popolari e
liberali.
La lista dovrebbe caratterizzarsi come la lista di tutti coloro che
si oppongono alle politiche di austerità a livello nazionale ed europeo
e provare a dare voce a tutto ciò che si muove a sinistra e nei
movimenti sul piano sociale, culturale e politico. Le differenti
posizioni che vi sono in Italia sono presenti all’interno di Syriza come
di tutte le altre aggregazioni della Sinistra Europea ma altrove non
impediscono di ritrovarsi insieme in una comune battaglia.
Si possono condividere facilmente criteri che garantiscano un
profilo innovativo per la formazione delle liste in modo da evitare che
un progetto politico possa apparire come un mero tentativo di
ricollocazione di ex-parlamentari alla ricerca di un seggio e al tempo
stesso garantendo la pari dignità di tutte le biografie e i percorsi
personali di partito e/o di movimento. Per sgombrare il campo: per noi
non ci sono problemi a convenire su un criterio per esempio di
esclusione dalle liste di compagni o compagne che abbiano ricoperto
negli ultimi dieci anni incarichi parlamentari o di governo.
Quello che ci preme è che questo processo sia democratico e
partecipato, basato su un coinvolgimento effettivo di tutti e tutte
coloro che sono interessati a dar vita alla lista.
E’ tanto difficile provarci?
Paolo Ferrero
in data:17/01/2014
mercoledì 15 gennaio 2014
PAOLO FERRERO RIELETTO SEGRETARIO DEL PARTITO
L'INTERVISTA
«E adesso rilanciare Rifondazione»
Intervista a Paolo Ferrero, rieletto segretario nazionale di Rifondazione comunista
Il Cpn di questa fine settimana ti ha
riconfermato nel ruolo di segretario, quali saranno i punti principali
dell’azione politica della fase che si apre?
I punti fondamentali sono due. In primo luogo il pieno dispiegamento del Piano per il Lavoro, cioè della proposta concreta che facciamo per uscire qui ed ora dalle politiche di austerità e che potrebbe dar vita a milioni di posti di lavoro. L’idea di fondo è molto semplice: solo la redistribuzione del reddito, del lavoro e un intervento pubblico nei settori di pubblica utilità può ridurre drasticamente la disoccupazione. E’ una ricetta opposta a quella avanzata da Renzi che vuole invece proseguire nelle politiche di austerità e cioè nell’aggravamento della crisi che oramai è diventata deflazione. Il Piano del Lavoro non è solo un progetto ma è una proposta di lotta su cui costruire relazioni sociali e conflitto, territorio per territorio, settore per settore. Costruire un movimento per il lavoro a partire da un intervento pubblico è il nostro obiettivo, per ricominciare a parlare al paese a partire dai problemi del paese.
I punti fondamentali sono due. In primo luogo il pieno dispiegamento del Piano per il Lavoro, cioè della proposta concreta che facciamo per uscire qui ed ora dalle politiche di austerità e che potrebbe dar vita a milioni di posti di lavoro. L’idea di fondo è molto semplice: solo la redistribuzione del reddito, del lavoro e un intervento pubblico nei settori di pubblica utilità può ridurre drasticamente la disoccupazione. E’ una ricetta opposta a quella avanzata da Renzi che vuole invece proseguire nelle politiche di austerità e cioè nell’aggravamento della crisi che oramai è diventata deflazione. Il Piano del Lavoro non è solo un progetto ma è una proposta di lotta su cui costruire relazioni sociali e conflitto, territorio per territorio, settore per settore. Costruire un movimento per il lavoro a partire da un intervento pubblico è il nostro obiettivo, per ricominciare a parlare al paese a partire dai problemi del paese.
E il secondo?
Il secondo è la proposta di realizzare una lista unitaria di
sinistra per le elezioni europee. Una lista che abbia Alexis Tsipras
candidato a Presidente, che si riconosca nel Partito della Sinistra
europea e nel GUE, che aggreghi tutte le forze che in Italia vogliono
rovesciare le politiche neoliberiste. La situazione è fluida e per
questo positiva: abbiamo l’appello di Camilleri e Spinelli, abbiamo
varie realtà che si sono pronunciate per Tsipras, anche in SEL vi è un
dibattito attorno a questo nodo. La nostra proposta è di costruire una
lista unitaria che sia un vero e proprio spazio pubblico della sinistra
antiliberista, da costruirsi in modo democratico, partecipato e
paritario. Non proponiamo di fare la lista di Rifondazione Comunista
allargata - perché sappiamo che non riuscirebbe ad unire tutte le forze e
persone che effettivamente sono d'accordo sui nostri stessi contenuti
sull'Europa - ma non accettiamo esclusioni o discriminazioni: in un
quadro di chiarezza di contenuti, di rinnovamento dei volti e di
radicale democratizzazione dei percorsi di costruzione della lista, noi
lavoriamo affinché questa sia la lista di tutti coloro che vogliono
rovesciare le politiche europee da sinistra. Proprio oggi pomeriggio
abbiamo un incontro con i compagni di Syriza qui a Roma e da qui
vogliamo partire per un percorso unitario che deve coinvolgere il
partito a tutti i livelli e che, lo ribadisco, vedrà un referendum al
nostro interno per verificare se la scelta che stiamo perseguendo è
condivisa dai compagni e dalle compagne.
Il progetto politico è chiaro ma il CPN restituisce
l'immagine di un partito ancora diviso. Come mai in questo mese non si è
riusciti a ricomporre la frattura?
Chiudendo il Congresso che ha visto una larga maggioranza sul
documento 1, invece di proporre semplicemente la votazione sulla mia
riconferma, abbiamo proposto di fare una consultazione tra tutti i
membri del CPN e la gestione unitaria del partito. Ritengo infatti che
la linea politica sia quella decisa dai compagni e dalle compagne nei
congressi, ma che tutto il gruppo dirigente e tutto il partito deve
contribuire alla gestione del partito su quella linea politica. Era una
occasione per superare in avanti le divisioni congressuali, costruendo
un quadro di rinnovamento che non lasciasse sul campo vinti e vincitori.
Purtroppo i dirigenti cosiddetti “emendatari” hanno scelto, come i
dirigenti della mozione 2, di non partecipare alle consultazioni e hanno
fatto una presa di posizione collettiva che ribadiva i termini del
dibattito congressuale. Considero questo un grave errore perché non si è
colta l’occasione di fare un passo in avanti tutti insieme, prendendo
atto che il Congresso era stato fatto ma che era anche finito e che non
poteva continuare all’infinito. In questa condizione, la consultazione
ha dato un responso chiarissimo, con una larga maggioranza di compagne e
compagni che hanno indicato il mio nome come segretario e
parallelamente posto una grande domanda di rinnovamento. Questo abbiamo
fatto nel Cpn, dove la proposta di segreteria che ho avanzato e che è
stata approvata, vede un significativo rinnovamento, ben 6 su 10 dei
suoi membri non ne facevano parte. Per la prima volta da quando sono
segretario la segreteria ha una età media più bassa della mia….
Essere un segretario "di minoranza" cosa comporta?
Una cosa semplice e complicata nello stesso momento: assumere le
decisioni congressuali che, ripeto, sono state approvate a larga
maggioranza, come la strada maestra su cui muoversi e sulla base di quel
progetto politico rimettere in moto il partito, lavorando per costruire
ad ogni livello la gestione unitaria. Non considero questa situazione
una situazione definitiva: la considero una necessaria fase di passaggio
per rimettere in moto il partito sulla base del l’indirizzo politico
deciso nel Congresso. Non potevamo allungare il brodo ulteriormente, far
passare altri mesi. Non intendo infilarmi in trattative sui posti,
mediazioni infinite e patti di gestione. Questo l’ho fatto
consapevolmente negli anni scorsi per cercare il massimo di unità del
gruppo dirigente. Purtroppo questa unità è deflagrata vergognosamente il
minuto dopo il fallimento di Rivoluzione Civile a febbraio, nonostante
tutte le decisioni fossero state prese in modo collegiale e unitario.
L’unica strada per rilanciare Rifondazione non può essere la danza
immobile della trattativa tra le correnti ma il tentativo di ridare
fiato e senso alla nostra impresa politica. Io penso che le differenze
politiche che abbiamo tra di noi, perlomeno quelle dichiarate, siano
inferiori a quel che appare e che quindi sia possibile rilanciare il
partito e su questo rilancio costruire le condizioni per arrivare ad una
effettiva gestione unitaria del partito.
Vi è chi dice che tu avresti fatto uno scambio con la
Mozione 3 per ottenere il voto di astensione sulla segreteria,
snaturando così l’esito del Congresso.
Ho letto questo rilievo e mi pare che chi lo avanza continua a non
voler capire cosa è successo. Le differenze politiche con la mozione 3
sono palesi e non si sono ridotte. Ad esempio gli unici due atti
politici fatti dal Congresso ad oggi e cioè la scelta di fare l’accordo
con il centro sinistra in Sardegna e l’approvazione dell’Ordine del
giorno sul congresso della Cgil nel Cpn, hanno visto il pieno dissenso
dei dirigenti della mozione 3 e il consenso dei dirigenti di Essere
Comunisti. Io stesso ho ribadito in modo molte netto di essere
vincolato alla realizzazione di quanto deciso nel Congresso e cioè
all’attuazione di quanto previsto dal documento 1 approvato, ripeto, a
larga maggioranza. A me pare che i dirigenti del Documento 3 abbiano
semplicemente preso atto che il Congresso era finito e che era opportuno
che il partito si rimettesse in movimento evitando di avvitarsi in una
spirale autodistruttiva riguardante l’elezione dei gruppi dirigenti.
Questo senza alcuna modifica di giudizio, negativo, che questi compagni e
compagne danno sulla linea politica del partito, tant’è che i dirigenti
della mozione 3 hanno presentato una candidatura alternativa alla mia a
segretario nella persona della compagna Ussi. In questa vicenda non si è
misurato chi era più vicino o più distante politicamente ma chi ha
deciso di garantire immediatamente un rilancio dell’iniziativa politica
del partito e chi invece ha proseguito una battaglia politica come se il
congresso non fosse terminato. Per quanto mi riguarda io continuerò a
perseguire la gestione unitaria del partito a tutti i livelli e penso
che chi vuole esercitare il suo ruolo di direzione, nel pieno rispetto
delle differenze, deve farlo. Abbiamo bisogno di tutte le forze e di
tutte le intelligenze e nel concreto del lavoro politico confido di
poter superare questa situazione.
Però la mozione 1 si è divisa.
Si è divisa esattamente come era stata divisa nel Congresso e
infatti avevo proposto la consultazione come terreno per costruire una
ricomposizione che non è avvenuta. Il motivo mi pare il seguente: a
nessuno sfugge che dentro la Mozione 1, il tema del rinnovamento veniva
declinato in modo molto diverso, tant’è che vi erano due emendamenti al
testo del documento che parlavano di rinnovamento. Da un lato chi voleva
cambiare il segretario, definito settario, e modificare per questa via
anche la linea politica. Dall’altra chi voleva il rinnovamento per
rendere più efficace l’attuazione della linea politica di cui il
segretario era stato interprete ed esecutore. Nel Congresso ha prevalso
questa seconda ipotesi: l’emendamento Mainardi è stato approvato e
quello Albertini bocciato. Questo è cosa hanno deciso le migliaia di
iscritti e iscritte che hanno partecipato al Congresso: occorreva
prenderne atto, perché a un certo punto finisce il Congresso e si tratta
di gestire il partito. Questo purtroppo non è avvenuto, a mio parere
perché l’aver fatto della rottamazione del segretario il punto
fondamentale della battaglia congressuale, ha reso tutto più difficile,
dalla discussione sul rinnovamento a quello sui gruppi dirigenti. Così,
dopo la consultazione andata in quel modo e vista l’indisponibilità di
Essere Comunisti di far parte della segreteria, la proposta avanzata nel
Cpn è stata conseguente, sia sul segretario che sulla segreteria.
Preoccupato?
Solo un imbecille non lo sarebbe. Ma sono anche fiducioso sulla
possibilità di poter rilanciare l’azione politica del partito in modo
largamente unitario. Sulle elezioni europee vedo un terreno
significativo di convergenza e azione unitaria: la possibilità di fare
una lista legata alla sinistra europea, chiaramente alternativa a
socialisti e popolari è un obiettivo largamente condiviso nel partito.
In più è evidente che il progetto politico di SEL di fiancheggiamento
del centro sinistra è sempre più in crisi per cui sulle europee vi è
addirittura la possibilità di mettere in discussione l’attuale
configurazione della sinistra italiana. Mi pare che su questo ci sia un
grande terreno di lavoro politico unitario, di ricomposizione politica.
Così come il rilancio del lavoro sociale del partito attorno al Piano
del Lavoro può rispondere positivamente alla critica di politicismo che
nel Congresso è emersa con forza. Possiamo ridislocare il Partito nel
lavoro sociale con una proposta forte e su questo riguadagnare un ruolo
che oggi svolgiamo solo molto parzialmente.
Ci saranno cambiamenti organizzativi?
Si tratta di fare un radicale bagno di democrazia nel modo di
funzionare del partito. Questa è la critica maggiore che è emersa nel
Congresso da parte dei compagni e delle compagne. Su questo intendo
cambiare registro radicalmente: dal pieno coinvolgimento del partito
nelle decisioni a partire dal referendum sulle europee all’accorciare la
distanza tra centro e periferia, qui abbiamo da cambiare molto: la
logica pattizia di gestione del partito si può superare solo con un
forte coinvolgimento democratico di tutto il corpo militante del partito
all’interno di una gestione unitaria dello stesso. E’ quello che
vogliamo fare.
Romina Velchi
mercoledì 8 gennaio 2014
A PROPOSITO DI EUROPEE.....
Fra Tsipras e D'Arcais: è partito il tormentone
D'improvviso, dopo l'articolo di Barbara Spinelli, la
candidatura di Tsipras è esplosa nel dibattito politico a sinistra. È
una buona notizia. Significa che il suo nome catalizza attenzioni.
Del resto il documento finale approvato dal congresso di Perugia di Rifondazione recita:”.... il IX congresso del Prc impegna il Partito nel far crescere e avanzare per le prossime elezioni europee la costruzione di una lista di sinistra e contro l’austerità, che faccia riferimento alla Sinistra Europea e al Gue, e che riunisca intorno alla candidatura di Alexis Tsipras le forze della sinistra alternativa, i movimenti e le singole personalità che condividono il programma comune di lotta all’austerità, per i lavoro, la difesa dei beni comuni e dei diritti sociali”.
Ma è partito il solito tormentone. D'Arcais ha acceso le micce. L'uomo non fa nulla per evitare di essere antipatico; e ci riesce benissimo. L'idea che Tsipras sia un'ottima candidatura ma le liste debbano escludere chi in Italia ne è il referente: il Prc, è davvero singolare. Tutti siamo saltati come i tappi dello spumante. L'indignazione corre sulla rete. Tornano in mente le vicende di “Cambiare si può” naufragata (per colpa dei soloni Revelli ed altri). Rivoluzione Civile ne fu la regressione infelice.
Il tema è sempre quello: ”no ai partiti”. Eppure D'Arcais e gli altri dovrebbero conoscere che cos'è Syriza. È un unione di forze politiche e movimenti anche comunisti, che hanno saputo unirsi mentre da noi ci dividiamo anche per colpa di chi con “la puzza sotto il naso” dileggia le fottute migliaia di militanti che sostengono questi partiti, stanno nelle lotte, raccolgono più di altri le firme per i referemdum; e sono attivi tutti i giorni e non si fanno vedere solo in occasione delle elezioni.
Ma se la tesi va contro ogni fatto, logica e buon senso perchè, Spinelli, D'Arcais ed altri, possono avanzare tale proposta?
Il primo motivo sta nella nostra debolezza zeppa di scissioni, insuccessi elettorali, e dell'obiettivo mancato del polo di sinistra.
Scrive Flores: ”In Italia – a livello politico organizzato – la sinistra non esiste. Ma non esiste da molti anni. Esiste invece nella società civile. E la distanza e lo scarto tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare. ….. Se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana”.
Ben detto D'Arcais. Quello che manca in Italia è appunto la sinistra di classe, comunista, legata alla frantumata classe lavoratrice. Una sinistra di classe che non vuole solo democratizzare la società ma trasformarne i presupposti di fondo: i rapporti sociali. Il nostro invece, come Bertinotti e Vendola, sentenzia che siamo di un'altra era geologica. Ma il capitalismo di quale era geologica fa parte?
Nella analisi di cui sopra, tuttavia, va compreso anche D'Arcais poiché, seppur affermi presuntuosamente di aver mosso le grandi manifestazioni del decennio: dai girotondi, ai viola, al referendum sull'acqua, nemmeno lui è mai riuscito a costruire un soggetto politico. Non solo. I soggetti affini alla sua idea hanno avuto impennate forti ma poi sono crollati (idv) o crolleranno (Grillo) come lui stesso afferma.
In realtà ad essere sbagliata è la la tesi oggi in voga contro tutti i partiti. Da una parte, infatti, si critica il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo perché sarebbe: “Una grande forza politica di massa ma strutturata in modo debolissimo e soggetta agli umori di due capi”. Poi, in buona sostanza, si ripropone la stessa minestra solo che al posto di Grillo e Casaleggio ci sarebbero, immagino, il Nostro e la Spinelli.
Non a caso si teorizza che: “ I soggetti politici nascono se ci sono dei gruppi e delle élite capaci di cogliere le occasioni”. Il bricolage per la società civile, dunque. La Direzione politica alle élite. Le elezioni europee e Tsipras per costruire il soggetto politico.
Al fondo di questo corto circuito c'è sempre la contrapposizione di una società civile (buona) e quella politica (cattiva), cui si contrapporrebbe un'antipolitica (buona) che è tutt'uno con la suddetta società civile; da qui l'estromissione dei partiti in quanto tali. Il fatto è che nel momento in cui si costituisce un soggetto /lista/movimento politico si passa a far parte, volenti o nolenti, della politica. A quel punto è il progetto e la capacità politica concreta a fare la differenza, non l'essere o non essere società civile. Vedi M5S.
D'arcais va oltre: “La parola sinistra rischia di esser equivoca oggi. Paradossalmente non usarla è meno equivoco che usarla. Perché a volte sinistra indica anche l’opposto dei due suoi ideali fondamentali, giustizia e libertà. Noi abbiamo bisogno di una forza politica Giustizia e Libertà (oltretutto era il nome del movimento della Resistenza non comunista, perché antistaliniano). “Sinistra” per qualcuno richiama a volte ai regimi più antioperai che siano esistiti, quelli stalinisti. “Sinistra” ricorda in periodi più recenti il Pci e le sue continue trasformazioni, che sono state una non-opposizione al berlusconismo, che hanno permesso al berlusconismo di fiorire. “Sinistra” ricorda ora i partitini che si definiscono neo-comunisti e sono una parodia”.
Stupidaggine il continuismo fra Pci e Pds-Pd, il giudizio approssimativo sui paesi dell'est, ovviamente funzionali al discorso, ma un fondo di verità c'è.
Il termine sinistra non seleziona, non identifica. Il termine comunista non è affatto limpido: è confuso. Qui paghiamo il prezzo della mancata “Rifondazione” che non ha trovato il proprio oggetto di elaborazione: un nuovo e diverso socialismo che faccia i conti con il passato e si proietti nell'uscita a sinistra dalla crisi. Una Rifondazione che faccia i conti anche con la Questione Nazionale aperta in tutta la sua esplosività.
Think different dicono tutti i manuali. Invece di concentrarci sulla Rifondazione, stiamo continuando a sfruttare una miniera ormai esaurita. E senza un'altra lettura, la crisi politica, sociale, istituzionale, culturale del paese viene interpretata solo dalla cosiddetta antipolitica: dai Grillo, dai D'Arcais.
Il secondo motivo che permette l'affondo alla Spinelli, ai D'arcais, ai Toni Negri è la nostra proposta “moderata “ sull'Europa: cambiare i trattati ma dentro l'idea dell'Europa federale, di uno pseudo Stato europeo. Un'idea simile a quella del centro sinistra che, per altro, in campagna elettorale alzerà il tiro contro Bruxelles.
È un'idea sbagliata che mantiene un vestito unico strutturale su misura della Germania e della Finanza (l'euro) per realtà nazionali molto diverse. Un'idea che ha distrutto l'idea europeista stessa e alimentato il nazionalismo becero e di destra rispetto a quello democratico e progressista.
Il tema fra di noi non è fra europeisti o anti-europeisti, ma fra due idee diverse dell'Europa: uno stato unico o un'Europa confederale in cui l'unità si fa a partire dalle differenze, riconoscendole e gestendole. Da qui dunque la rivendicazione della sovranità nazionale, moneta compresa. Uno spazio mi alla portata della lotta di classe e democratica. In questo caso i D'Arcais volerebbero lontano da noi.
Questi temi rimarranno comunque aperti dentro e dopo le elezioni perché sono storici, strategici, strutturali. Il fatto è che stretti fra Grillo ed il Pd rischiamo di non essere né carne né pesce. Fare gli euro-struzzi non aiuta.
L'unico nostro valore (non aggiunto) oggi è Tsipras che piace per il suo significato simbolico: l'esperienza devastante ed emblematica della Grecia in Europa, per i risultati elettorali conseguiti, per l'argine che rappresenta contro la destra estrema. Poiché Tsipras è il nostro candidato, dobbiamo essere una sinistra di classe che, a differenza di D'Arcais e dei suoi amici supponenti, sia includente.
In fondo in qualche mese possiamo costruire solo una lista unitaria che rappresenti la sinistra alternativa al Pd. Ma questa volta facciamola seria, sobria, con chi sa riconoscere il ruolo dell'altro. Tsipras, Syriza appunto.
Del resto il documento finale approvato dal congresso di Perugia di Rifondazione recita:”.... il IX congresso del Prc impegna il Partito nel far crescere e avanzare per le prossime elezioni europee la costruzione di una lista di sinistra e contro l’austerità, che faccia riferimento alla Sinistra Europea e al Gue, e che riunisca intorno alla candidatura di Alexis Tsipras le forze della sinistra alternativa, i movimenti e le singole personalità che condividono il programma comune di lotta all’austerità, per i lavoro, la difesa dei beni comuni e dei diritti sociali”.
Ma è partito il solito tormentone. D'Arcais ha acceso le micce. L'uomo non fa nulla per evitare di essere antipatico; e ci riesce benissimo. L'idea che Tsipras sia un'ottima candidatura ma le liste debbano escludere chi in Italia ne è il referente: il Prc, è davvero singolare. Tutti siamo saltati come i tappi dello spumante. L'indignazione corre sulla rete. Tornano in mente le vicende di “Cambiare si può” naufragata (per colpa dei soloni Revelli ed altri). Rivoluzione Civile ne fu la regressione infelice.
Il tema è sempre quello: ”no ai partiti”. Eppure D'Arcais e gli altri dovrebbero conoscere che cos'è Syriza. È un unione di forze politiche e movimenti anche comunisti, che hanno saputo unirsi mentre da noi ci dividiamo anche per colpa di chi con “la puzza sotto il naso” dileggia le fottute migliaia di militanti che sostengono questi partiti, stanno nelle lotte, raccolgono più di altri le firme per i referemdum; e sono attivi tutti i giorni e non si fanno vedere solo in occasione delle elezioni.
Ma se la tesi va contro ogni fatto, logica e buon senso perchè, Spinelli, D'Arcais ed altri, possono avanzare tale proposta?
Il primo motivo sta nella nostra debolezza zeppa di scissioni, insuccessi elettorali, e dell'obiettivo mancato del polo di sinistra.
Scrive Flores: ”In Italia – a livello politico organizzato – la sinistra non esiste. Ma non esiste da molti anni. Esiste invece nella società civile. E la distanza e lo scarto tra una sinistra sempre meno esistente nella politica ufficiale e una sinistra sempre più forte nella società civile continua ad aumentare. ….. Se non si capisce questo non si capisce la situazione italiana”.
Ben detto D'Arcais. Quello che manca in Italia è appunto la sinistra di classe, comunista, legata alla frantumata classe lavoratrice. Una sinistra di classe che non vuole solo democratizzare la società ma trasformarne i presupposti di fondo: i rapporti sociali. Il nostro invece, come Bertinotti e Vendola, sentenzia che siamo di un'altra era geologica. Ma il capitalismo di quale era geologica fa parte?
Nella analisi di cui sopra, tuttavia, va compreso anche D'Arcais poiché, seppur affermi presuntuosamente di aver mosso le grandi manifestazioni del decennio: dai girotondi, ai viola, al referendum sull'acqua, nemmeno lui è mai riuscito a costruire un soggetto politico. Non solo. I soggetti affini alla sua idea hanno avuto impennate forti ma poi sono crollati (idv) o crolleranno (Grillo) come lui stesso afferma.
In realtà ad essere sbagliata è la la tesi oggi in voga contro tutti i partiti. Da una parte, infatti, si critica il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo perché sarebbe: “Una grande forza politica di massa ma strutturata in modo debolissimo e soggetta agli umori di due capi”. Poi, in buona sostanza, si ripropone la stessa minestra solo che al posto di Grillo e Casaleggio ci sarebbero, immagino, il Nostro e la Spinelli.
Non a caso si teorizza che: “ I soggetti politici nascono se ci sono dei gruppi e delle élite capaci di cogliere le occasioni”. Il bricolage per la società civile, dunque. La Direzione politica alle élite. Le elezioni europee e Tsipras per costruire il soggetto politico.
Al fondo di questo corto circuito c'è sempre la contrapposizione di una società civile (buona) e quella politica (cattiva), cui si contrapporrebbe un'antipolitica (buona) che è tutt'uno con la suddetta società civile; da qui l'estromissione dei partiti in quanto tali. Il fatto è che nel momento in cui si costituisce un soggetto /lista/movimento politico si passa a far parte, volenti o nolenti, della politica. A quel punto è il progetto e la capacità politica concreta a fare la differenza, non l'essere o non essere società civile. Vedi M5S.
D'arcais va oltre: “La parola sinistra rischia di esser equivoca oggi. Paradossalmente non usarla è meno equivoco che usarla. Perché a volte sinistra indica anche l’opposto dei due suoi ideali fondamentali, giustizia e libertà. Noi abbiamo bisogno di una forza politica Giustizia e Libertà (oltretutto era il nome del movimento della Resistenza non comunista, perché antistaliniano). “Sinistra” per qualcuno richiama a volte ai regimi più antioperai che siano esistiti, quelli stalinisti. “Sinistra” ricorda in periodi più recenti il Pci e le sue continue trasformazioni, che sono state una non-opposizione al berlusconismo, che hanno permesso al berlusconismo di fiorire. “Sinistra” ricorda ora i partitini che si definiscono neo-comunisti e sono una parodia”.
Stupidaggine il continuismo fra Pci e Pds-Pd, il giudizio approssimativo sui paesi dell'est, ovviamente funzionali al discorso, ma un fondo di verità c'è.
Il termine sinistra non seleziona, non identifica. Il termine comunista non è affatto limpido: è confuso. Qui paghiamo il prezzo della mancata “Rifondazione” che non ha trovato il proprio oggetto di elaborazione: un nuovo e diverso socialismo che faccia i conti con il passato e si proietti nell'uscita a sinistra dalla crisi. Una Rifondazione che faccia i conti anche con la Questione Nazionale aperta in tutta la sua esplosività.
Think different dicono tutti i manuali. Invece di concentrarci sulla Rifondazione, stiamo continuando a sfruttare una miniera ormai esaurita. E senza un'altra lettura, la crisi politica, sociale, istituzionale, culturale del paese viene interpretata solo dalla cosiddetta antipolitica: dai Grillo, dai D'Arcais.
Il secondo motivo che permette l'affondo alla Spinelli, ai D'arcais, ai Toni Negri è la nostra proposta “moderata “ sull'Europa: cambiare i trattati ma dentro l'idea dell'Europa federale, di uno pseudo Stato europeo. Un'idea simile a quella del centro sinistra che, per altro, in campagna elettorale alzerà il tiro contro Bruxelles.
È un'idea sbagliata che mantiene un vestito unico strutturale su misura della Germania e della Finanza (l'euro) per realtà nazionali molto diverse. Un'idea che ha distrutto l'idea europeista stessa e alimentato il nazionalismo becero e di destra rispetto a quello democratico e progressista.
Il tema fra di noi non è fra europeisti o anti-europeisti, ma fra due idee diverse dell'Europa: uno stato unico o un'Europa confederale in cui l'unità si fa a partire dalle differenze, riconoscendole e gestendole. Da qui dunque la rivendicazione della sovranità nazionale, moneta compresa. Uno spazio mi alla portata della lotta di classe e democratica. In questo caso i D'Arcais volerebbero lontano da noi.
Questi temi rimarranno comunque aperti dentro e dopo le elezioni perché sono storici, strategici, strutturali. Il fatto è che stretti fra Grillo ed il Pd rischiamo di non essere né carne né pesce. Fare gli euro-struzzi non aiuta.
L'unico nostro valore (non aggiunto) oggi è Tsipras che piace per il suo significato simbolico: l'esperienza devastante ed emblematica della Grecia in Europa, per i risultati elettorali conseguiti, per l'argine che rappresenta contro la destra estrema. Poiché Tsipras è il nostro candidato, dobbiamo essere una sinistra di classe che, a differenza di D'Arcais e dei suoi amici supponenti, sia includente.
In fondo in qualche mese possiamo costruire solo una lista unitaria che rappresenti la sinistra alternativa al Pd. Ma questa volta facciamola seria, sobria, con chi sa riconoscere il ruolo dell'altro. Tsipras, Syriza appunto.
Ugo Boghetta
in data:07/01/2014
venerdì 3 gennaio 2014
L'EDITORIALE DI DINO GRECO
La Fiat si prende Chrysler, ma chiude in Italia
E' tutto un coro di festeggiamenti quello che accoglie la
notizia dell'acquisizione (con pochissima spesa) della Chrysler da
parte di Fiat. Il "colpo", dal punto di vista finanziario è eccellente, e
di questa abilità Marchionne aveva dato già in passato ottima prova.
Gran parte dei quattrini necessari all'acquisto delle azioni di Veba
Trust (4,3 miliardi di dollari) è infatti uscita dalle casse di
Chrysler, vale a dire dai dividendi che la Fiat incassa grazie alle
performance della casa di Detroit, visto che quelle conseguite in Europa
sono a dir poco disastrose. Si capisce l'apprezzamento Usa per il
successo dell'operazione (il Wall Street Journal non risparmia lodi al
manager che rilevò Chrysler dal fallimento, insieme ad un bel mucchio di
quattrini ottenuti grazie al ruolo attivo di Barak Obama). Gli
americani hanno capito quello che da noi si finge di non intendere, e
cioè che a beneficiare dell'operazione non saranno gli stabilimenti
italiani e i lavoratori che lì vi sono impiegati, perché il baricentro
strategico del nuovo gruppo si sposterà con tutta evidenza nella
capitale americana dell'auto: lì si stabilirà il nuovo quartier generale
e sarà Wall Street a quotare in borsa il nuovo "player globale" nel
mercato dell'auto.
Solo gli sprovveduti possono trascurare questa circostanza quasi fosse priva di significato e di conseguenze per il destino della produzione di auto nel nostro paese. Privo di ragionevolezza, o frutto di un collaudato riflesso servile nei confronti del padronato in generale e della "Famiglia" in particolare è dunque il tripudio di sindacalisti (Cisl, Uil) e di politici (Cota, Fassino fra i primi) che da Marchionne hanno ricevuto solo calci e sberleffi. Il governo italiano, che molto ha dato senza nulla mai pretendere dagli Agnelli, è di nuovo con il cappello in mano ad elemosinare qualche investimento in casa nostra.
Peccato che le cose vadano in tutt'altro modo. Ai duemila operai della fabbrica di Termini Imerese chiusa due anni fa sono state propinate soltanto promesse bugiarde ed ora sono senza nulla in mano a protestare davanti a quei gusci vuoti su cui avevano un tempo costruito le proprie vite e le proprie speranze. Le tute blu dell'ex indotto hanno ricevuto le lettere di licenziamento; quelle di Ansaldo Breda di Carini la comunicazione della cassa integrazione per 13 settimane. Da ieri non hanno più un posto di lavoro i 174 dipendenti della Lear e della Clerprem, aziende che ruotavano attorno all'impianto di Termini, specializzate nella produzione di sedili e imbottiture. Le ditte hanno dato esecuzione alle procedure di licenziamento collettivo a valere da ieri, 1 gennaio. Per la mobilità c'è tempo fino al 7 gennaio e i lavoratori non possono sforare, pena la perdita di una parte della già magra indennità: 850 euro il primo anno, 650 il secondo, rispetto a una stipendio di 1400-1500 euro. La "rabbia è grande", spiegano i lavoratori all'Agi, per l'entusiasmo di Sergio Marchionne dopo l'accordo che consente a Fiat di completare l'acquisizione di Chrysler, "mentre qui cancellano operai e la storia industriale di Termini Imerese".
La verità è che, in Italia, la Fiat ha fatto dei siti su cui era insediata un deserto di aree industriali dismesse, dal Piemonte alla Sicilia, passando per il Lazio e la Campania (remember Irisbus). A Cassino, a Mirafiori, a Melfi è un diluvio di ore di cassa integrazione, mentre il futuro produttivo di quegli stabilimenti continua ad essere avvolto nel mistero, visto che Marchionne non si è mai degnato di indicare uno straccio di credibile piano di rilancio per gli stabilimenti italiani, né al sindacato né al governo che del resto si è ben guardato di esercitare il proprio potere per ottenere risposte serie, invece di subire impotente l'arrogante vaniloquio del manager del Lingotto.
Ora sono lì a sperare che dai forzieri del nuovo "costruttore globale" esca qualche spicciolo da investire in Italia, ormai derubricata a succursale periferica, a colonia di interessi che hanno altrove il prorio core business. Forse nessuna vicenda, come questa, incarna la decadenza industriale del nostro Paese e il naufragio politico della sua classe dirigente.
Solo gli sprovveduti possono trascurare questa circostanza quasi fosse priva di significato e di conseguenze per il destino della produzione di auto nel nostro paese. Privo di ragionevolezza, o frutto di un collaudato riflesso servile nei confronti del padronato in generale e della "Famiglia" in particolare è dunque il tripudio di sindacalisti (Cisl, Uil) e di politici (Cota, Fassino fra i primi) che da Marchionne hanno ricevuto solo calci e sberleffi. Il governo italiano, che molto ha dato senza nulla mai pretendere dagli Agnelli, è di nuovo con il cappello in mano ad elemosinare qualche investimento in casa nostra.
Peccato che le cose vadano in tutt'altro modo. Ai duemila operai della fabbrica di Termini Imerese chiusa due anni fa sono state propinate soltanto promesse bugiarde ed ora sono senza nulla in mano a protestare davanti a quei gusci vuoti su cui avevano un tempo costruito le proprie vite e le proprie speranze. Le tute blu dell'ex indotto hanno ricevuto le lettere di licenziamento; quelle di Ansaldo Breda di Carini la comunicazione della cassa integrazione per 13 settimane. Da ieri non hanno più un posto di lavoro i 174 dipendenti della Lear e della Clerprem, aziende che ruotavano attorno all'impianto di Termini, specializzate nella produzione di sedili e imbottiture. Le ditte hanno dato esecuzione alle procedure di licenziamento collettivo a valere da ieri, 1 gennaio. Per la mobilità c'è tempo fino al 7 gennaio e i lavoratori non possono sforare, pena la perdita di una parte della già magra indennità: 850 euro il primo anno, 650 il secondo, rispetto a una stipendio di 1400-1500 euro. La "rabbia è grande", spiegano i lavoratori all'Agi, per l'entusiasmo di Sergio Marchionne dopo l'accordo che consente a Fiat di completare l'acquisizione di Chrysler, "mentre qui cancellano operai e la storia industriale di Termini Imerese".
La verità è che, in Italia, la Fiat ha fatto dei siti su cui era insediata un deserto di aree industriali dismesse, dal Piemonte alla Sicilia, passando per il Lazio e la Campania (remember Irisbus). A Cassino, a Mirafiori, a Melfi è un diluvio di ore di cassa integrazione, mentre il futuro produttivo di quegli stabilimenti continua ad essere avvolto nel mistero, visto che Marchionne non si è mai degnato di indicare uno straccio di credibile piano di rilancio per gli stabilimenti italiani, né al sindacato né al governo che del resto si è ben guardato di esercitare il proprio potere per ottenere risposte serie, invece di subire impotente l'arrogante vaniloquio del manager del Lingotto.
Ora sono lì a sperare che dai forzieri del nuovo "costruttore globale" esca qualche spicciolo da investire in Italia, ormai derubricata a succursale periferica, a colonia di interessi che hanno altrove il prorio core business. Forse nessuna vicenda, come questa, incarna la decadenza industriale del nostro Paese e il naufragio politico della sua classe dirigente.
Dino Greco
in data:02/01/2014
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