lunedì 7 ottobre 2013

INIZIATIVA IMPORTANTE


 COSTITUZIONE
LA VIA MAESTRA
MANIFESTAZIONE NAZIONALE

12 OTTOBRE ROMA




 

MERCOLEDI’ 9  OTTOBRE 2013

ORE 20.15

AUDITORIUM VILLA MILESI, LOVERE

DIBATTITO CON:

-         Barbara Pezzini (costituzionalista e docente università di Bergamo)

 

 

Il 12 ottobre l'appuntamento è a Roma in Piazza della Repubblica alle ore 14.00
per una grande manifestazione nazionale per difendere la Costituzione e rivendicarne l'applicazione. Per prenotazioni chiamare la Fiom di Brescia al n.  030  3729270.

 

 

 

 


Fiom Cgil Vallecamonica Sebino – Libera di Vallecamonica


Comitato per la difesa della Costituzione


 

L'appello: “la via maestra”


1. Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione. La difesa della Costituzione non è uno stanco richiamo a un testo scritto tanti anni fa. Non è un assurdo atteggiamento conservatore, superato dai tempi. Non abbiamo forse, oggi più che mai, nella vita d’ogni giorno di tante persone, bisogno di dignità, legalità, giustizia, libertà? Non abbiamo bisogno di politica orientata alla Costituzione? Non abbiamo bisogno d’una profonda rigenerazione bonificante nel nome dei principi e della partecipazione democratica ch’essa sancisce? 

Invece, si è fatta strada, non per caso e non innocentemente, l’idea che questa Costituzione sia superata; che essa impedisca l’ammodernamento del nostro Paese; che i diritti individuali e collettivi siano un freno allo sviluppo economico; che la solidarietà sia parola vuota; che i drammi e la disperazione di individui e famiglie siano un prezzo inevitabile da pagare; che la partecipazione politica e il Parlamento siano ostacoli; che il governo debba essere solo efficienza della politica economica al servizio degli investitori; che la vera costituzione sia, dunque, un’altra: sia il Diktat dei mercati al quale tutto il resto deve subordinarsi. In una parola: s’è fatta strada l’idea che la democrazia abbia fatto il suo tempo e che si sia ormai in un tempo post-democratico: il tempo della sostituzione del governo della “tecnica” economico-finanziaria al governo della “politica” democratica. Così, si spiegano le “ineludibili riforme” – come sono state definite –, ineludibili per passare da una costituzione all’altra. La difesa della Costituzione è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. È un impegno, al tempo stesso, culturale e politico che richiede sia messa in chiaro la natura della posta in gioco e che si riuniscano quante più forze è possibile raggiungere e mobilitare. Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa. 

2. Eppure, per quanto si sia fatto per espungerla dal discorso politico ufficiale, nel quale la si evocava solo per la volontà di cambiarla, la Costituzione in questi anni è stata ben viva. Oggi, ci accorgiamo dell’attualità di quell’articolo 1 della Costituzione che pone il lavoro alla base, a fondamento della democrazia: un articolo a lungo svalutato o sbeffeggiato come espressione di vuota ideologia. Oggi, riscopriamo il valore dell’uguaglianza, come esigenza di giustizia e forza di coesione sociale, secondo la proclamazione dell’art. 3 della Costituzione: un articolo a lungo considerato un’anticaglia e sostituito dall’elogio della disuguaglianza e dell’illimitata competizione nella scala sociale. Oggi, la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti fondamentali, proclamate dall’art. 2 della Costituzione, rappresentano la difesa contro la mercificazione della vita degli esseri umani, secondo le “naturali” leggi del mercato. Oggi, il dovere tributario e l’equità fiscale, secondo il criterio della progressività alla partecipazione alle spese pubbliche, proclamato dall’art. 53 della Costituzione, si dimostra essere un caposaldo essenziale d’ogni possibile legame di cittadinanza, dopo tanti anni di tolleranza, se non addirittura di giustificazione ed elogio, dell’evasione fiscale. Ecco, con qualche esempio, che cosa è l’idea di società giusta che la Costituzione ci indica.
Negli ultimi anni, la difesa di diritti essenziali, come quelli alla gestione dei beni comuni, alla garanzia dei diritti sindacali, alla protezione della maternità, all’autodeterminazione delle persone nei momenti critici dell’esistenza, è avvenuta in nome della Costituzione, più nelle aule dei tribunali che in quelle parlamentari; più nelle mobilitazioni popolari che nelle iniziative legislative e di governo. Anzi, possiamo costatare che la Costituzione, quanto più la si è ignorata in alto, tanto più è divenuta punto di riferimento di tante persone, movimenti, associazioni nella società civile. Tra i più giovani, i discorsi di politica suonano sempre più freddi; i discorsi di Costituzione, sempre più caldi, come bene sanno coloro che frequentano le aule scolastiche. Nel nome della Costituzione, ci si accorge che è possibile parlare e intendersi politicamente in un senso più ampio, più elevato e lungimirante di quanto non si faccia abitualmente nel linguaggio della politica d’ogni giorno. 

In breve: mentre lo spazio pubblico ufficiale si perdeva in un gioco di potere sempre più insensato e si svuotava di senso costituzionale, ad esso è venuto affiancandosi uno spazio pubblico informale più largo, occupato da forze spontanee. Strade e piazze hanno offerto straordinarie opportunità d’incontro e di riconoscimento reciproco. Devono continuare ad esserlo, perché lì la novità politica ha assunto forza e capacità di comunicazione; lì si sono superati, per qualche momento, l’isolamento e la solitudine; lì si è immaginata una società diversa. Lì, la parola della Costituzione è risuonata del tutto naturalmente.
3. C’è dunque una grande forza politica e civile, latente nella nostra società. La sua caratteristica è stata, finora la sua dispersione in tanti rivoli e momenti che non ha consentito di farsi valere come avrebbe potuto, sulle politiche ufficiali. Si pone oggi con urgenza, tanto maggiore quanto più procede il tentativo di cambiare la Costituzione in senso meramente efficientistico-aziendalistico (il presidenzialismo è la punta dell’iceberg!), l’esigenza di raccogliere, coordinare e potenziare il bisogno e la volontà di Costituzione che sono diffusi, consapevolmente e, spesso, inconsapevolmente, nel nostro Paese, alle prese con la crisi politica ed economica e con la devastazione sociale che ne consegue. 

Anche noi abbiamo le nostre “ineludibili riforme”. Ma, sono quelle che servono per attuare la Costituzione, non per cambiarla. 

Lorenza Carlassare - Don Luigi Ciotti - Maurizio Landini - Stefano Rodotà - Gustavo Zagrebelsky 

mercoledì 24 luglio 2013

Da Gezi Park alla Valle Susa - di Giorgio Cremaschi

POLITICA

Da Gezi Park alla Valle Susa

Tutta la grande informazione ha seguito con trepidazione e simpatia la mobilitazione popolare in Turchia. Quel grande movimento democratico è esploso attorno alla protesta di centinaia di giovani che volevano impedire l'abbattimento di alcuni alberi in Gezi Park, un parco di Istambul destinato ad essere cancellato per far posto a qualche grande opera.
In Valle Susa sinora sono stati abbattuti oltre 5000 alberi, molti secolari, in uno scempio di cui ho personalmente potuto rendermi conto prima che tutta quell'area venisse chiusa al mondo diventando così una zona rossa, un'altro di quei buchi neri che da Genova in poi ingoiano la nostra democrazia.
Contro quella devastazione e contro l'opera che la ispira ancora una volta si sono mobilitati i militanti del movimento Notav, cercando giustamente di provare a fermarle, come i giovani turchi di Gezi Park. Ma nella grande informazione sono apparsi subito come violenti, fiancheggiatori del terrorismo, nemici del bene comune.
Contro quella mobilitazione si sono scatenate azioni che ricordano quelle alla Diaz a Genova. A Torino è in corso un procedimento giudiziario nei confronti di decine di attivisti costruito come se gli imputati fossero mafiosi o terroristi.
Leggi e regole speciali, l'occupazione militare del territorio si applicano sempre più spesso in una Valle dove il consenso popolare alla lotta contro la Tav non è mai, mai venuto meno. Ma il rifiuto persistente e generalizzato dell'opera non provoca assolutamente una riflessione, un ripensamento nel palazzo e nella informazione di regime.
Le ragioni di mercato dell'opera non esistono oramai nemmeno negli imbrogli più sfacciati. La Francia sta liquidando la sua parte di opera inutile, i convogli delle merci, diradati e ridotti per la crisi, passano altrove. Il buco in Valle Susa è un devastante e costosissimo percorso verso il nulla, ma bisogna farlo comunque. Come con gli F 35, bisogna spendere a vuoto decine di miliardi perché così si è deciso, punto e basta.
Bisogna farlo perché il potere deve dimostrare la sua forza di fronte a chi lo contesta. Non si cede alla piazza. Non si può ammettere che i Notav abbiano ragione, sarebbe un precedente pericolosissimo che potrebbe dar luogo ad un contagio democratico tra tutte e tutti coloro che oggi non ne possono più. La democrazia è diventata un bene di esportazione, non è che dobbiamo averla anche noi qui.
E così si continuano ad abbattere alberi e diritti, a sprecare montagne di soldi perché indietro non si può tornare, tutto il palazzo ci perderebbe la faccia.
Se qualcuno vuole comprendere perché il Partito Democratico sia diventato artefice della distruzione dei valori della sinistra in questo paese e con quali affinità governi oggi con Berlusconi, vada in Valle Susa, parli con quei pericolosi terroristi che sono i NoTav e capirà tutto.
Torniamo tutti in Valle alla marcia popolare sabato prossimo. E cominciamo a far sì che quei luoghi diventino il Gezi Park del popolo italiano.
Giorgio Cremaschi
in data:24/07/2013

giovedì 18 luglio 2013

L'EDITORIALE DI DINO GRECO

Il Pd decide di salvare Alfano… e distruggere se stesso

Per l’ennesima volta – e questa potrebbe essere fatale – i democratici capitombolano ai piedi del Pdl e si apprestano a votare contro la sfiducia ad Angelino Alfano, benché egli sia manifestamente coinvolto nell’affare Shalabayeva.  E’ questa la decisione sortita dalla segreteria del Pd, che ha architettato una linea trasudante ipocrisia e cattiva coscienza: la non-sfiducia al vice-premier verrebbe (si fa per dire) controbilanciata dalla richiesta che egli “faccia un passo indietro”, in sostanza che si dimetta con atto unilaterale. Dunque, da un lato il Pd riconosce la responsabilità, non si sa se soggettiva o oggettiva, di Alfano, dall’altro non ne trae le conseguenze ed affida pilatescamente ad Alfano medesimo – che ha ripetutamente mentito e che di dimettersi non ha alcuna intenzione – la prerogativa di decidere cosa fare. Quindi lui, e insieme a lui tutto il Pdl, tirerà dritto, politicamente coperto com’è anche da Enrico Letta il quale pur di tenere in vita il governo da lui presieduto è disposto a tollerare, e perciò a condividere, qualsiasi misfatto.
Quella del Pd è in definitiva una resa senza condizioni, grave e clamorosa, ancorché prevedibile, almeno da parte di chi abbia seguito con attenzione critica il progressivo perdersi di questo partito. Una resa destinata ad aprire fratture forse insanabili nel gruppo dirigente, soprattutto in quello allargato, e voragini di consenso nell’elettorato più esigente.
La botte ruzzola veloce verso valle e a questo punto torna, inquietante, l’interrogativo su ciò che il Pd farà quando e se, il 30 luglio, la Corte di Cassazione dovesse confermare l’esito dei precedenti gradi di giudizio del processo Mediaset e rendere definitiva la condanna di Berlusconi all’interdizione dai pubblici uffici. Se il Senato, con il voto determinante dei Democratici, dovesse neutralizzare gli effetti di quella sentenza, il Paese precipiterebbe in un conflitto fra poteri e in una crisi democratica senza precedenti, dove tutto, davvero tutto, diventerebbe possibile.
Mentre la politica dà questa oscena prova di sé, apprendiamo dell’arresto di Salvatore Ligresti (e dell’intera sua famiglia), l’uomo che giunse al vertice del “salotto buono” del capitalismo italiano (“colà dove si puote ciò che si vuole…”) con l’accusa di falso in bilancio e manipolazione del mercato. In realtà è la crem de la crem del potere economico e finanziario a mostrare il guasto profondo che innerva i rapporti sociali nel nostro Paese. Fate mente locale: Fondiaria, Monte dei Paschi, Eni, Finmeccanica, Pirelli, Fiat (vale a dire il gotha dell’industria e della finanza nazionale) incrociano sistematicamente con la giustizia. Si squaderna così davanti al Paese quel “sovversivismo delle classi dominanti” che costituisce un filo nero che attraversa la storia d’Italia e che sta trascinando il Belpaese al fallimento sociale, politico e democratico.
La politica - attraverso gli schieramenti che oggi solidalmente siedono in plancia di comando e dove “una mano lava l’altra” - si abbevera a quella fonte corrotta e malata.
Nessuna sorpresa che le cose siano giunte sino a questo punto.

Dino Greco
in data:18/07/2013

mercoledì 3 luglio 2013

L'EDITORIALE DI EMILIANO BRANCACCIO

Brancaccio: “L’euro è un morto che cammina, exit strategy da sinistra”

Brancaccio: “L’euro è un morto che cammina, exit strategy da sinistra”

da Keynesblog.it -
Il signor euro aveva più volte rischiato l’infarto. Il dottor Draghi decise allora di metterlo in coma farmacologico. Sulla cura però indugiava, e a intervalli periodici il dilemma amletico gli si ripresentava: lasciarlo dormire o farlo morire? Draghi insisteva per la prima soluzione. Ma ad un tratto il popolo italiano ha improvvisamente optato per la seconda: ormai l’euro è solo uno zombie, un morto che cammina. Volenti o nolenti, prendiamone atto.
Vedrete che nel Direttorio della Bce l’avranno già capito. A Francoforte si accingeranno a modificare la “regola di solvibilità” della politica monetaria: il famigerato ombrello europeo contro la speculazione verrà pian piano chiuso, per poi finire in cantina [1]. La dottrina del falco Jurgen Stark, uscita dalla porta, si appresta dunque a rientrare dalla finestra. Si può star certi che il dottor Draghi dovrà accoglierla con tutti gli onori. Le più fosche previsioni di un appello di 300 economisti, pubblicato nel giugno 2010, si stanno dunque avverando [2]. La pretesa della Bce di proteggere dagli attacchi speculativi solo i paesi devoti alla disciplina dell’austerity, si è rivelata un clamoroso errore, logico e politico. L’Italia, che ha dato i lumi al Rinascimento ma anche al Fascismo, ieri ha sancito che per l’euro non resta che recitare il De Profundis. Nessuno osi affermare che ha fatto da sola: i tecnocrati europei, condizionati dagli interessi prevalenti in Germania, stavano già da tempo preparando il fosso in cui seppellire la moneta unica.
E ora? Gli eredi più o meno degni del movimento operaio novecentesco che faranno? Sapranno anticipare il corso degli eventi o preferiranno anche stavolta fungere da ultima ruota del carro della Storia? Anziché lasciarsi travolgere dall’idea ottusa della “grande coalizione”, o riesumare il giovane dinosauro liberista Renzi per suicidarsi entro un anno, sarebbe forse opportuno che il Partito democratico e la CGIL prendessero atto che non è più tempo di parlare di politiche di convergenza o magari di standard retributivo europeo [3]. I proprietari tedeschi non sono più interessati alla moneta unica, le speranze di riforma dell’Unione monetaria sono ormai vane. Il punto dirimente è dunque uno soltanto: in che modo uscire dalla zona euro.
Il più probabile, allo stato dei fatti, è il modo di “destra”, che consiste nel favorire le fughe di capitale, aprire alle acquisizioni estere del capitale bancario e degli ultimi spezzoni rilevanti di capitale industriale nazionale, e lasciare i salari completamente sguarniti di fronte a un possibile sussulto dei prezzi e soprattutto delle quote distributive. C’è motivo di prevedere che non soltanto il redivivo Berlusconi ma anche molti altri inizieranno ad ammiccare a questa soluzione. Sedicenti “borghesi illuminati”, orde di opinionisti del mainstream si affretteranno a rifarsi una verginità giudicando l’euro un ideale kantiano fin dalle origini destinato al fallimento, riesumando Milton Friedman e i cambi flessibili e dichiarandosi favorevoli alla svalutazione allo scopo di rendere il paese appetibile per i capitali esteri a caccia di acquisizioni a buon mercato. Che dunque la moneta unica se ne vada al diavolo, grideranno: l’importante è salvare il mercato unico e la libera circolazione dei capitali dalle pulsioni protezioniste dei cosiddetti populisti! Ebbene, se le cose andranno in questi termini, c’è motivo di temere che la deflagrazione della zona euro potrebbe rivelarsi una macelleria messicana. Del resto, chi un po’ ha studiato la storia economica dell’ultimo secolo sa bene che la sovranità monetaria, presa isolatamente, non è la panacea, e che non sono stati per nulla infrequenti i casi di sganciamento da un regime di cambi fissi che hanno prodotto veri e propri disastri in termini di liquidazione del capitale nazionale e distruzione degli ultimi scampoli di diritti sociali. Beninteso, non sempre è andata male, ma in alcuni casi e per alcuni soggetti è andata malissimo. Per citare solo qualche esempio: nel 1992, dopo l’uscita dallo SME, in Italia la quota salari crollò dal 62 al 54%. Nel 1994-1995, dopo i deprezzamenti, Turchia, Messico e Argentina registrarono in un anno cadute dei salari reali rispettivamente del 31%, 19% e del 5%, e dopo la svalutazione del 1998, in Indonesia, Corea del Sud e Tailandia si verificarono diminuzioni dei salari reali del 44%, 10% e 6% (dati ILO e World Bank). Per non parlare dei “fire sales” dei capitali nazionali favoriti dalla svalutazione. Il ripristino della sovranità monetaria è ormai imprescindibile, ma l’uscita “da destra” potrebbe trasformarlo in un incubo.
Questa prospettiva non costituisce però un destino inesorabile. Come abbiamo cercato di argomentare in questi mesi, c’è anche un modo alternativo di gestire l’implosione dell’eurozona, che consiste nel tentativo di costruire un blocco sociale intorno a una ipotesi di uscita dall’euro declinata a “sinistra”. Vale a dire, in primo luogo: un arresto delle fughe di capitale; accorte nazionalizzazioni al posto delle acquisizioni estere dei capitali bancari; un meccanismo di indicizzazione dei salari e di amministrazione di alcuni prezzi base per governare gli sbalzi nella distribuzione dei redditi; la proposta di un’area di libero scambio tra i paesi del Sud Europa. Insomma: la soluzione “di sinistra” dovrebbe vertere sull’idea che se salta la moneta unica bisognerà mettere in questione anche alcuni aspetti del mercato unico europeo.
Verificare se esistono le condizioni per formare una coalizione sociale intorno a una ipotesi di uscita “da sinistra” dall’euro significherebbe anche mettere alla prova il Movimento 5 Stelle. Che sebbene abbia il vento in poppa difficilmente arriverà a governare da solo, e che in ogni caso si troverà presto di fronte al bivio ineludibile di qualsiasi politica economica: dare priorità agli imprenditori e ai piccoli proprietari, oppure cercare una sintesi con gli interessi dei lavoratori subordinati.
Il 12 luglio 2012 un importante dirigente dei Democratici mi scriveva: «sono d’accordo con te e depresso per il conformismo culturale di tanti a noi vicini. Dobbiamo vederci per il piano B», dove “piano B” stava appunto per “uscita da sinistra dall’euro”. Pochi giorni dopo Draghi rimise la plurinfartuata moneta unica in coma farmacologico e il “piano B” finì nuovamente nel limbo dell’indicibile. Oggi se ne può riparlare? In tutta franchezza, anche adesso che l’euro è di nuovo in prossimità dello sfascio ho il sospetto che il PD e la CGIL non saranno in grado di compiere una tale virata. L’iceberg ormai lo vedono anche loro, e forse hanno persino capito che in gioco è la loro stessa sopravvivenza, come il destino del Pasok insegna. Ma hanno mangiato per decenni pane e “liberoscambismo”, e sono stati educati dai bignami di economia e di storia di Eugenio Scalfari, che fatica ormai persino a rammentare che alla vigilia della prima guerra mondiale imperversava non certo l’autarchia ma il gold standard e la piena libertà di circolazione internazionale dei capitali. Bisognerebbe oggi rileggere Keynes e studiare Dani Rodrik, di Harvard. Temo però che a sinistra non vi sarà nemmeno il tempo di un’autocritica, figurarsi di un cambio di paradigma [4].
Gli scomodi panni delle Cassandre iniziano a far male davvero: speriamo, almeno stavolta, di sbagliarci.
Emiliano Brancaccio da emilianobrancaccio.it

mercoledì 5 giugno 2013

CASO ILVA DI TARANTO!!!

Il trucco infame del governo contro gli operai dell'Ilva e i cittadini di Taranto

E’ tutto finto: lo è il commissariamento, con Enrico Bondi che cambia la casacca di Amministratore delegato affidatagli dai Riva per indossare in corsa quella da Commissario fornitagli dal governo; lo è il sequestro del patrimonio di famiglia – per la verità disposto dalla magistratura con serio imbarazzo dell’esecutivo da sempre preoccupato di salvare i padroni di Taranto – che ora sarà custodito, nel nome del popolo italiano…, dall’ex uomo di Riva; lo è la presunta “confisca” dell’impianto, destinato tuttavia – così recita il decreto – ad essere restituito, al massimo entro tre anni, ai suoi attuali proprietari.
La trombonata del ministro per lo Sviluppo Economico: “Non si può affidare il risanamento a chi ha prodotto il dissesto ambientale” appare allora per quello che è: un “falso ideologico”, una colossale beffa ai danni degli operai dell’Ilva, dei cittadini di Taranto, dell’intero Paese. Ma pretendere da questo ceto politico la dovuta considerazione del bene pubblico, del preminente valore dell’interesse sociale rispetto a quello privato è come chiedere ad un asino di volare.
La Costituzione? Lasciamo perdere. Per chi oggi detiene il potere quello è un vecchio e inservibile arnese, un retaggio dell’”ideologia soviettista”, ereditato da un’epoca particolare, definitivamente tramontata. Non si era espresso così Berlusconi, con diretto riferimento agli articoli 41, 42 e 43 della Carta che osano consentire allo Stato di interferire nei rapporti di proprietà?
All’amalgama politico che ha miscelato le culture di Pd e Pdl, la sola idea dell’esproprio di un padrone responsabile di gravissimi reati contro i lavoratori, i cittadini, l’ambiente, la pubblica amministrazione, deve sembrare una blasfemia.
Che i Riva – sulle cui teste pendono procedimenti penali di enorme entità – possano alla fine tornare in possesso dello stabilimento per ricominciare a fare profitti sulla pelle altrui è invece cosa del tutto normale.
Merita soltanto ricordare che il principale – sebbene non solo – artefice di questo capolavoro è il ministro Flavio Zanonato, un altro esemplare della nuova alba del Partito democratico che sta intestandosi le peggiori nequizie antisociali, in partnership con la destra da tea-party che ci ritroviamo.
Multatuli

giovedì 30 maggio 2013

SALVIAMO LIBERAZIONE

Liberazione serve. Facciamola vivere

Da gennaio c’è un giornale quotidiano on-line che si chiama Liberazione.it, giornale comunista. Proprietario della testata è il Partito della Rifondazione comunista, lo stesso che per vent’anni ha editato l’edizione cartacea che in passato avete trovato (con un po’ di fortuna) nelle edicole.
Oggi, in seguito ai consistenti tagli del fondo per l’editoria di partito e di idee, questa possibilità ci è preclusa: troppo grandi sono per le nostre gracili spalle i costi della distribuzione, delle tipografie, della carta. Anche questo, se mai qualcuno non se ne fosse accorto, è il risultato della forsennata campagna condotta dai ricchi contro i poveri per privarli, nei fatti, dell’elementare diritto (costituzionale) di fare politica e di dire la propria.
Eppure siamo qui, un drappello di giornalisti, di compagne e di compagni, con spirito militante e con la voglia, non estinta, di continuare ad offrire un’informazione e un punto di vista diversi, mentre una pesante cappa di piombo uniforma i messaggi che vengono propinati ad una sempre più addomesticata e meno reattiva opinione pubblica.
Tuttavia, anche il giornale on-line costa. Molto molto meno di quello di carta, ma costa. E al partito, nelle condizioni date, non è ragionevole chiedere nulla.
Per questa semplice ma inesorabile ragione, il giornale è leggibile soltanto dagli abbonati, salvo la home page e la prima pagina in formato pdf, concepita sul modello classico di Liberazione, scaricabile e stampabile da chiunque ai fini della diffusione e dell’affissione nelle bacheche.
Circa un migliaio di lettori, lettrici, compagne e compagni hanno sino ad oggi risposto alla chiamata abbonandosi, chi per un anno (50 euro), chi per un semestre (30 euro): troppo pochi per potere resistere ancora, sia pure con strutture e ranghi così fortemente ridotti.
Eppure, il prodotto che abbiamo confezionato e stiamo via via cercando di migliorare è apprezzato e ne riceviamo quotidiana testimonianza. Molte strutture (federazioni, circoli) collaborano inviandoci interventi, commenti, articoli che raccontano iniziative e buone pratiche di cui esse stesse sono protagoniste nei territori. C’è chi lo fa sistematicamente e chi saltuariamente. Poi c’è chi non lo fa affatto e, francamente, vi è da chiedersene la ragione, perché i comunisti, proprio in quanto tali, non godono di buona stampa ed ognuno può constatare quanto pesi l’ostracismo mediatico cui siamo sottoposti.
Ebbene, si sappia che non abbiamo molto agio davanti a noi. Anzi, a ben vedere, il tempo è già scaduto. Se entro un mese non saremo stati in grado di aumentare significativamente il numero degli abbonamenti saremo costretti a gettare la spugna.
Non sarebbe un bel segnale, nel mentre il partito – dopo l’ultima debacle elettorale – sta provando, con molta fatica ma con altrettanto impegno, a ridefinire le coordinate della propria strategia, a rinnovare la propria struttura, i metodi di lavoro, ad elevare la qualità dei propri gruppi dirigenti, a rafforzare il rapporto fra questi e i movimenti che ancora innervano una società civile sfibrata da una partitocrazia sorda e soffocante.
Quando si parla – non sempre con cognizione di causa e quindi con scarsa efficacia – di “cura del partito”, si dovrebbe por mente al fatto che uno degli aspetti cruciali di questo cimento è proprio la comunicazione (di idee, progetti, esperienze, pratiche sociali e politiche, ecc.), leva essenziale nella vita di un partito politico e, primariamente, di un partito comunista.
Di questo, del resto, sono stati sempre persuasi i grandi rivoluzionari che hanno costruito, qui e altrove, la storia del movimento operaio. Essi hanno sempre dedicato alla questione della formazione della coscienza critica delle masse un’attenzione quasi maniacale.
Se proprio noi continuassimo a trascurare questo “fronte” del lavoro politico pregiudicheremmo seriamente non soltanto la vita del giornale, ma le stesse chance di ripresa di Rifondazione e, con essa, di una vera sinistra in Italia.
Dino Greco, Romina Velchi
in data:29/05/2013